Calma e gesso. Il sindaco di Taranto, Piero Bitetti, ha venti giorni di tempo – come prevede la legge – per ritirare o confermare le dimissioni. Una decisione sorprendente, arrivata dopo un confronto acceso sul dossier ex Ilva, durante il quale ha denunciato di essere stato minacciato da un gruppo ristretto, ma ben organizzato, di ambientalisti. Per tutelare la propria incolumità, Bitetti ha protocollato una lettera ufficiale, motivando le dimissioni con il ricorso alla formula – ormai consueta nel gergo politichese – dell’«inagibilità politica». Ma lasciare il campo davanti a vocianti e contestatori maldisposti, specie su un tema cruciale come la siderurgia pubblica e i suoi 10.000 posti di lavoro, è un brutto segno.
I fatti: il 31 luglio, al Ministero delle Imprese e del Made in Italy, il ministro Adolfo Urso, presiederà l’incontro decisivo per la definizione dell’Accordo di programma interistituzionale. Vi prenderanno parte i sindaci di Taranto e Statte, il presidente della Regione Puglia, i commissari straordinari di Acciaierie d’Italia e Ilva, e altri attori istituzionali. In vista di questa scadenza, Bitetti aveva convocato per il 30 luglio una seduta del Consiglio comunale, preceduta da un incontro pubblico – quello di lunedì scorso – diventato tristemente celebre per le sue conseguenze. A Taranto, la città è spaccata in due: tra chi invoca la chiusura immediata dello stabilimento e chi difende la continuità produttiva, chiedendo una riconversione verso l’acciaio green per salvaguardare i posti di lavoro. Le campagne elettorali promettono miracoli, ma alla fine – spesso già all’inizio – presentano il conto. Le contraddizioni esplodono facilmente, soprattutto in una città attraversata da problemi antichi, irrisolti, e da una cronica mancanza di visione strategica.
Il 31 luglio senza il sindaco di Taranto che piega prenderà la riunione? Chi difenderà i suoi interessi ambientali, sanitari e occupazionali? Questa è la domanda che l’opinione pubblica si pone. I nodi di Taranto vengono da lontano. La crisi dell’acciaio pubblico – ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia – non è recente, ma è diventata emblema dell’incapacità di immaginare un futuro industriale coerente e sostenibile. Quo vadis, Taranto? Non si può ridurre questa città alle sue disgrazie industriali. Taranto è storia, civiltà, filosofia e letteratura: dalla Magna Grecia all’epoca romana, fino al Novecento.
Ma sul fronte identitario dell’industria, governi, imprenditori, amministrazioni e magistratura hanno lasciato tracce profonde, di cui oggi si pagano le conseguenze. La narrazione negativa è diventata quasi un genere letterario: cronaca nera, degrado urbano, microcriminalità. Tutto vero. Ma ripetuto senza mai interrogarsi sulle cause o proporre soluzioni. La realtà è che Taranto ha sofferto l’assenza di una cultura industriale solida, soffocata dall’assistenzialismo e da una borghesia priva di visione. Le piccole e medie imprese – altrove motore dello sviluppo – qui non sono mai decollate, nonostante un potenziale esistente. La città ha vissuto delle sue risorse marittime: pesca, mitilicoltura, l’Arsenale Militare, l’ex Tosi, il porto. Ma il porto commerciale, che potrebbe essere un nodo logistico strategico tra Suez e Rotterdam, resta ancora privo di infrastrutture adeguate e fondali idonei. Eppure Taranto è – e resta – nu sole amaro, addore ’e mare: una città con energie profonde, ancora in grado di reagire.
La transizione industriale è la sfida vera. Passare dal ciclo integrale a carbone ai forni elettrici e al DRI alimentato a gas è tecnicamente possibile, ma richiede investimenti, tempo, competenze e volontà politica. Chi invoca la chiusura immediata degli altiforni e la cassa integrazione generalizzata mostra di non conoscere la complessità del problema. La decarbonizzazione è una necessità, ma non può essere perseguita sacrificando migliaia di famiglie. In questo scenario, il porto e la ZES ionica sono risorse decisive, finora rimaste inespresse per l’inerzia istituzionale e l’assenza di un progetto coerente. Serve un cambio di passo. Serve che il sindaco, se rientrerà, rilanci l’idea di un Patto per Taranto: un accordo vincolante tra Stato, Regione, Comune, autorità portuale e sistema produttivo. Basta con gli interventi a pioggia, le mance e le promesse vacue. Serve un piano straordinario – come fu il Piano Marshall – per riportare Taranto al centro.
Taranto non chiede pietà, ma giustizia. Non vuole compassione, ma opportunità. Non pretende scorciatoie, ma un futuro concreto. «E tu sai che ca’ non si sula» – lo sa bene chi è nato qui. Ma servono alleanze vere, istituzioni presenti, visioni lungimiranti. E allora, in un tempo in cui il cinismo sembra avere la meglio, vale la pena ricordare le parole di Gramsci: «Occorre il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà». Perché Taranto non è un capolinea. Taranto è – può essere – un inizio. In conclusione, per dirla con i versi La guerra di Piero di Fabrizio De Andrè: Fermati Piero, fermati ora / Lascia che il vento ti passi un po’ addosso.