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I giovani se ne vanno, ma il lavoro al Sud non è una battaglia persa

I giovani se ne vanno, ma il lavoro al Sud non è una battaglia persa

 
Lino Patruno

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Lino Patruno

I giovani se ne vanno, ma il lavoro al Sud non è una battaglia persa

Venerdì 25 Luglio 2025, 13:12

Ma siamo proprio sicuri che in Italia il lavoro per i giovani non ci sia? E siamo proprio sicuri che non ci sia soprattutto per i giovani del Sud? E siamo proprio sicuri che l’unica possibilità per trovare questo lavoro sia emigrare? Siamo proprio sicuri di tutto questo quando non si riesce a coprire un milione e duecentomila posti di lavoro perché non ci sono candidati? E siamo proprio sicuri che il lavoro per i giovani non ci sia quando si verifica che i nuovi posti di lavoro a disposizione siano acquisiti sempre più da pensionati che da giovani? E siamo proprio sicuri che questo lavoro per i giovani soprattutto del Sud non ci sia quando la metà del recente aumento dell’occupazione è dovuto agli stranieri? E siamo proprio sicuri che questo lavoro da emigrati dal Sud al Nord sia sempre e comunque quello giusto visto che dal Nord emigrano in 60 mila ogni anno all’estero perché il lavoro non è soddisfacente a cominciare dal compenso?

Passo indietro. Queste domande non escludono, anzi, che una cospicua parte dei meridionali al Nord abbia trovato ciò che desiderava. Ma quel milione e duecentomila posti in attesa sono sempre lì, aspettando Godot. E sono in maggioranza posti legati alle nuove tecnologie, quindi adatti a una generazione di nativi digitali che hanno i tastini incorporati al posto delle dita. Quelle nuove tecnologie che in tanti altri casi fanno nascere startup anche di successo, Sud compreso, e Puglia e Basilicata anche. Quindi non solo, come una troppo superficiale vulgata vuole far credere, posti da camerieri o da personale d’albergo per il turismo. Cioè quelli rifiutati da buona parte dei giovani tanto poco pagati quanto molto sfruttati, e non perché vogliano la domenica libera e le sere anche. A parte quei lavori che gli italiani non vorrebbero più fare, dalla guardiania in garage alla raccolta dei pomodori. Ciò che del resto avviene in tutto il mondo.

Al tempo del ‘68 si diceva «segui la luce interiore», non rinunciare ai tuoi sogni. E ancora ci sono anime belle che invitano a fortemente volere per fortemente realizzare. Poco conta che sempre più spesso i sogni vadano da una parte e la realtà dall’altra. A cominciare dalla scelta degli studi, a volte appunto surreale. Con tutto il corollario della polemica vecchia come il cucco fra chi sostiene che la scuola debba preparare alla vita e chi ribatte che debba piuttosto preparare a un lavoro. Ma i tempi cambiano anche per chi non se ne accorge benché viva soprattutto di cellulare in mano. E che ci sia una sconnessione fra pensiero e azione, tra passione ragione, è più evidente che in questo luglio si soffochi. Occorre riequilibrare. Pardon, oggi si dice resettare.

Metti la scuola, sempre chiamata in causa in maniera tanto inesorabile quando inevitabile quanto provvidenziale. E un solo esempio: oggi il nuovo alfabeto non va dalla «a» alla «z» ma dall’account alla password. Ma se il primo è stato insegnato fra i banchi, il secondo si dovrebbe imparare praticandolo. Altro che la Rai di Non è mai troppo tardi che ha unificato gli italiani più di Garibaldi. Non se ne occupa la scuola e nemmeno il servizio pubblico televisivo. L’informatica come materia scolastica ha fatto capolino nel recente programma del ministro Valditara. Come capolino vi ha fatto la lingua inglese senza la quale oggi sei fuori. Come capolino vi fa l’educazione civica che non è solo norme giuridiche ma istruzioni all’uso dello stare insieme al mondo. Infine vai, se vai, all’università (gli italiani i meno in Europa) e invece, magari, di attrezzarti appunto in tecnologie ed economia e scienza, ti attrezzi in ciò che appaga più la tua anima (se pure) che il tuo futuro. Ma l’obiezione è che la scuola non può dipendere dal mercato. E così sia.

Siamo oggi tanto indifesi nella vita di ogni giorno (specie al Sud, grazie a una serie di leggi discriminatorie), che ci sarebbe davvero bisogno di un servizio di Manutenzione Umana e Cittadina Permanente. Anzitutto verso gli anziani, che aumentano tanto quanto diminuiscono i mezzi al loro rivolti: dalle badanti, agli infermieri, agli accompagnatori, agli ascoltatori. Ma siamo indifesi anche verso le necessità di ogni giorno, e non solo degli anziani: servirebbe chi aiuta a fare la spesa, chi aiuta a sbrigare le pratiche, chi va a fare la coda, chi ti prende e ti riporta. Servirebbe poi che fossero pronti e veloci tutti gli interventi di emergenza: dal mitico idraulico, all’elettricista, al caldaista, al riparatore universale, al trasportatore, all’antennista, al calzolaio, alla sarta.

Sono tanto introvabili quanto a costi da gioielleria. Fra tempi, e ansie, e insoddisfazioni, da diventare piccoli poteri contro cui combattere piuttosto che competenze nelle quali confidare. Dovrebbero essere invece centri di pronto intervento specie in quelle città che non sono città dei «quindici minuti», dove in quindici minuti hai tutto sotto mano. Sarebbero lavoratori più desiderati di un frigo all’Equatore. Ma i giovani no, non c’è lavoro, emigriamo.

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