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Due madri, due mondi lontani: ecco le storie di donne che non smettono mai di accudire

 
chicca maralfa

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chicca maralfa

Le mani delle madri spiegano il mondo

Mercoledì 28 Maggio 2025, 16:55

Ci sono fotografie che, anche senza cercarlo, finiscono per parlare la stessa lingua. In questi giorni, due immagini – una scattata a Genova e l’altra all’ospedale Nasser di Khan Younis, a Gaza – sembrano raccontare, nella loro distanza siderale, la stessa storia: la fatica e la forza di essere donna oggi.

La prima è quella di Antonella Salis, ex martellista pluricampionessa e vicepresidente del Coni, nuova sindaca della città ligure, che festeggia la vittoria elettorale con il figlio in braccio, per strada, in mezzo alla folla, con il volto acceso da un sorriso che è insieme conquista e tenerezza. Madre e figura pubblica: l’immagine sfida gli stereotipi, mostrando che l’impegno civile non esclude la dimensione privata e che la maternità non è, e non deve essere, un ostacolo alla presenza politica.

Anzi, proprio la conciliazione di questi due aspetti – il privato e il pubblico, l’essere madre e l’essere cittadina attiva – sembra restituire una nuova forma di potere femminile, che non rinnega nulla di sé ma, anzi, rivendica tutto. In quell’abbraccio fra madre e figlio, fra corpo politico e corpo biologico, si legge una promessa di futuro e di speranza.

Ma affinché quell’immagine diventi davvero un modello possibile – e non resti solo il racconto di una condizione elitaria – servono politiche, servizi, cultura e strumenti concreti che rendano accessibile a tutte la possibilità di essere, insieme, madri e protagoniste dello spazio pubblico.

La seconda immagine è arrivata qualche giorno fa dal fronte di Gaza e ha il volto di Alaa, una pediatra. Un volto attraversato da un dolore che non si può descrivere: ha perso nove dei suoi dieci figli sotto le bombe, proprio nel luogo in cui cura ogni giorno i piccoli feriti della guerra, l’ospedale Nasser di Khan Younis. Il marito è in terapia intensiva, ma Alaa non si ferma: resiste, sostiene, continua ad accudire, a prendersi cura, nonostante la vita l’abbia colpita nel modo più crudele possibile.

Due donne, due immagini: una madre-leader in festa, una madre-medico annientata dal lutto e dalla guerra. Ma entrambe, a modo loro, parlano di un’attitudine femminile che è insieme promessa e condanna: la cura. La capacità di tenere insieme la vita degli altri, di non smettere di essere presenza per chi ci sta intorno, di trovare forza persino dentro la devastazione.

Sono anche due immagini che, seppure così lontane nei contesti e nelle storie, finiscono per parlare la stessa lingua. La loro forza non sta solo nel racconto di due destini individuali. Ci mostrano il traguardo di una nuova alleanza tra maternità e spazio pubblico, ma ci ricordano anche quanto questa capacità di cura sia ancora troppo spesso data per scontata, schiacciata dall’assenza di protezione, resa eroica dalla gioia come dal dolore. In entrambi i casi, la condizione della donna appare, nella sua dimensione globale, come una staffetta senza fine tra forza e fragilità, tra possibilità e fatica, tra promesse e ferite.

L’immaginario collettivo si costruisce anche così: attraverso fotografie che, per un istante, rendono visibile ciò che spesso resta invisibile – la fatica, la forza, la resistenza quotidiana delle donne.

Guardarle significa, prima di tutto, accettare la complessità che contengono: la vittoria pubblica che non cancella la vulnerabilità privata, la sofferenza estrema che non spegne la capacità di accudire.

Se il compito di chi racconta attraverso uno scatto fotografico è proprio questo, grazie a quella fotografia diventa anche il compito di chi la osserva: non accontentarsi di emozionarsi o di giudicare, ma provare a leggere i segni che contiene, interrogarli e restituirli alla comunità per quello che sono: frammenti di realtà che chiedono di essere compresi, per trasformarsi in consapevolezza diffusa.

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