Sabato 06 Settembre 2025 | 17:53

Salone del Libro, ecco perché non sono andato

 
Gino Dato

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Gino Dato

Libri

Dopo quarant’anni di presenza, quasi, religiosa, come lettore, redattore editoriale, come giornalista, come editore. Quest’anno non ci sono

Domenica 18 Maggio 2025, 14:15

Non sono andato a Torino. Dopo quarant’anni di presenza, quasi, religiosa, come lettore, redattore editoriale, come giornalista, come editore. Quest’anno non ci sono. Devo farmene una ragione per zittire i sensi di colpa.

Perché qualcosa mi manca, eccome… Il brusio fervoroso nei padiglioni? Il profumo di carta, che aleggia più dell’odore  degli umani? Il piacere estatico delle parole, dei colori e delle forme?  L’ebbrezza di una spremuta di bestseller e grandi firme? Qualcosa mi manca e non riesco a definirlo.  Poi, andando indietro negli anni, scomponendo  i ricordi e attualizzandoli a questa edizione, riesco a focalizzare meglio  sensazioni e pulsioni.

Il Salone, con il bagno di carta e lettura, dovrà far dimenticare la brutta flessione nel 2024 del mercato dei libri di varia e adulti. L’Aie l’attribuisce ad alcune «estinzioni»: la sostituzione della 18 app con le Carte Cultura e del Merito e il mancato finanziamento delle biblioteche per 30 milioni di euro. In Italia la vendita di libri di varia adulti e ragazzi è in calo di circa il 2,3% rispetto all’anno precedente, quasi 2,500 milioni di copie in meno. Cala anche l’online. Tra i generi, cresce la narrativa, italiana (3,2%) e straniera (0,9%). Flette il settore bambini e ragazzi dello 0,8%, ma anche la saggistica generale del 2%, la manualistica del 4,1%, la saggistica specialistica del 5,1%, i fumetti del 5,5%. Ma se vai a Torino non lo fai per i numeri e la scorpacciata di dati e analisi che vengono sciorinati per l’occasione, coinvolgendo professionali e non. Se diserti i padiglioni e gli stand nel Salone di maggio ti mancherà invece il contatto diretto e magari ruvido con autori e lettori ma, anche e soprattutto, con quelli che chiamo gli «scriventi», coloro che, pur non essendo professionisti, fanno pratica di scrittura.

Negli ultimi anni gli scriventi hanno soverchiato i «leggenti». Una genia che esiste dacché si scrivono libri ma che, in anni di introversione delle sorti del mondo, hanno intensificato lo scrivere: come chiamarli, i neofiti del  romanzo, gli esordienti della penna, coloro che una volta nella vita vorranno riflettersi nel nome su una copertina, in un titolo in bandella, nel fruscio delle pagine che scorrono. A questa categoria indefinibile ma che non tramonta mai, gli editori guardano spesso con aria di fastidio. Invece di coccolarsela e scrutarne movimenti e umori.  Meglio gli «scriventi» dei «leggenti»? Non è questione di predilezione. Sono entrambi «utili». A Torino i primi arrivano spaesati con il manoscritto sottobraccio, leggeri e non ingombrati come accade invece per la categoria dei leggenti. I primi cercano il mago, il prestigiatore, colui che darà il colpo di bacchetta magica alle sorti di una storia, di una novella, di un racconto, di una vita. I secondi sono invece coloro che ogni anno fanno incetta di letture, i bulimici che non si fermano mai nell’arte di sfogliare e tesaurizzare centinaia e centinaia di pagine, che rinnovano il rito della esplorazione tra tavoli e scaffali, attrezzati di mappa e capiente carrello della spesa o zaino. Siamo grati alla seconda categoria che difende e tiene alte - si fa per dire - le medie e il mercato, i lettori forti. Ma dovremmo scrutare con attenzione anche la seconda e prolifica, coloro che hanno fatto una scelta drastica di memorie e di testimonianze.

Intasano le cassette postali e i server, ti assediano con la domanda di rito: «Quando esce il mio libro?». Ma sono coloro che hanno cambiato anche il panorama letterario e trasformato la letteratura. Scrivono e scrivono e così facendo disegnano la natura nuova della memoria.

Oggi affidiamo la memoria a strumenti digitali dei quali  possiamo anche non fidarci: che ne sarà di questi supporti tra qualche  anno? Dove finiranno e su quali formati? L’esercito di scriventi usa la scrittura come un dispositivo di sicurezza per serbare la memoria, guarda con diffidenza ai nuovi format e preferisce restare ancorato  all’artigianato del racconto di carta, della antologia di poesie, del romanzo che si sfoglia, perché è importante che la loro voce giunga sino a noi. Possa sopravvivere. Sembra quasi una vendetta della memoria tradizionale rispetto alla narrazione continua, del ricordo che permane e va salvaguardato rispetto al baluginare di una coscienza che ha perso ogni ancora  di salvezza. Ecco, è questa coscienza del proprio «scrivo quindi sono» che mi manca, il contatto con questi «individui» che affollano i viali del Salone e cercano la auctoritas anche di un minuto.

Un balzo nell’eternità che discende dal guizzo e dal piacere di una narrazione. E allora rifletto su che cosa oggi possa definirsi  letteratura. E concludo che letteratura  è questa voglia, prima ancora che capacità, di sapersi interrogare nel racconto che fissa in modo indelebile le emozioni e i sentimenti della vita.

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