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Quella violenza «spiata» col telefono in mano e il diritto ad avere diritti

 
Federica Resta

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Federica Resta

Quella violenza «spiata» col telefono in mano e il diritto ad avere diritti

È difficile immaginare una violenza più efferata di quella inflitta a una ragazza, sul suo corpo, da suoi coetanei, in gruppo

Giovedì 24 Agosto 2023, 13:45

È difficile immaginare una violenza più efferata di quella inflitta a una ragazza, sul suo corpo, da suoi coetanei, in gruppo. Quella di una giovane donna preda del branco, soggiogata dalla ferocia di ragazzi, alcuni anche amici, improvvisamente trasformatisi in carnefici, è probabilmente l’immagine più terribile che si possa attribuire alla violenza. Non solo a quella dell’uomo sulla donna, che causa una vera e propria strage silenziosa, ma alla violenza, nel senso più autentico del termine, come negazione più profonda della dignità della persona. In quell’immagine c’è la barbarie dello stupro e la terribile, cieca, forza del gruppo (icasticamente rappresentata dal film «Il branco» molti anni fa) scagliata contro una giovane donna, sola e inerme. E i protagonisti di questo dramma sono ragazzi di quella stessa Palermo che ha, invece, potuto vantare, giustamente orgogliosa, da più di un trentennio, esempi importanti di attivismo giovanile e impegno civile, anzitutto contro una violenza altrettanto insidiosa quale quella mafiosa.

Eppure, la vicenda di Palermo concentra in sé un dramma che non può non toccare la coscienza sociale, con un’urgenza persino più forte della riprovazione che, istintivamente, suscita. Quando alla violenza agìta si sovrappone quella non solo incitata, ma addirittura filmata, quando il «basista» diviene filmaker, c’è qualcosa di più drammatico persino di quella banalità del male, con cui Hannah Arendt indicava il prestarsi, più o meno inconsapevoli, agli altrui disegni criminali.

Ora, spetterà alla magistratura delineare il perimetro delle responsabilità, i termini del «concorso» di chi, pur non agendo la violenza, abbia voluto tenerne traccia, quasi come fosse uno dei tanti momenti, più o meno felici, che siamo abituati a filmare.

Quello che, però, non può non interrogare ciascuno di noi è la violenza non solo assistita, tollerata, non impedita ma addirittura ripresa, filmata e poi condivisa come l’immagine di un trofeo. In questo, come in altri casi, la videoripresa sembra rappresentare una modalità tutta peculiare di partecipazione alla violenza, come se ne esprimesse la componente «rappresentativa».

Così è accaduto a Napoli in primavera, quando un ragazzo di dodici anni è stato massacrato di calci e pugni «in diretta», mentre quella violenza, non impedita, veniva filmata da alcuni del gruppo ed esibita sui social come una macabra «bravata».

In altri casi, non rari, sono stati anonimi passanti a filmare morti accidentali o provocate. Alcuni, certamente, lo fanno per documentare l’accaduto e mettere a disposizione degli inquirenti elementi utili a ricostruirne la dinamica. Ma altri riprendono la violenza come fosse una scena neutra, di vita quotidiana, che non esige soccorso ma «merita» la registrazione. Cosi è accaduto un anno fa a Civitanova Marche, quando un ambulante claudicante è stato aggredito con il suo stesso bastone davanti a passanti che, inerti, hanno preferito riprendere la scena invece di soccorrerlo, rivendicando, a chi li invitava ad astenervisi, il loro «diritto» di riprendere ciò che volessero. E anche se, in questi casi, lo spettatore intendesse restare tale e non divenire compartecipe, la sola scelta di non soccorrere ma filmare, la disimpegnata omissione di ogni intervento sposta il confine delle responsabilità.

Anche per questo, la violenza assistita con il telefono in mano ci interroga con l’urgenza delle grandi questioni. È difficile dire se quest’assuefazione al male subito e agìto, questa derubricazione della violenza a ordinaria quotidianità da riprendere inerti, come ogni altro frammento della nostra giornata, sia il frutto della digitalizzazione della vita che è la caratteristica dell’oggi. Certo è, che l’abitudine a vivere «in diretta» può portare a confondere l’immane concretezza della realtà – con i suoi drammi, le sue urgenze, le sue asperità-con la sua rappresentazione, astratta e in fondo sempre lontana. Il reale sfuma nel virtuale, l’azione nella simulazione; l’abuso sembra in fondo inscenato. Per sottrarsi alla legge mimetica della violenza, perpetrata e tollerata, inflitta e osservata, bisogna allora tornare a investire sulla dignità della persona: quel diritto ad avere diritti di cui, ancora una volta, scriveva Hannah Arendt.

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