Un’altra estate, allora, da godere come un bene proibito, scarso. Come è stato nell’anno 2022. Con la differenza che non sono né il Covid, né i disastri ambientali e neanche Caronte e Cerbero a relegare in casa un lavoratore su tre, ma i mezzi scarsi di un bilancio in lotta con il carovita.
Oggi, certo, nel bel mezzo del rito dell’esodo, non ci fa piacere notificare che in tutta Europa ben 38 milioni di lavoratori, il 19,5% della platea interessata, non potrà permettersi le agognate vacanze per sé e per la propria famiglia.
La statistica, elaborata dal Sindacato Europeo (Ces), relega gli italiani in una condizione tra le peggiori in Europa, toccando il 30,75% i lavoratori che non potranno permettersi una vacanza, deprivati e piombati.
Un traguardo che ci pone non solo al di sopra della media europea, ma ben oltre il doppio dei senza-vacanze che si registrano in Francia e in Germania, dove solo il 13% dei lavoratori non può godersi un trancio di estate. Qualcuno potrebbe sorridere e sottolineare – indignato – come le migliaia di famiglie oramai ridotte alle soglie della povertà da tempo non pregustavano più il piacere di una vacanza. Ai senza casa, senza tetto, senza identità, senza nome, senza pane, senza dignità, che cosa potrà mai togliere ancora il senza spiaggia?
E invece la notizia di per sé merita attenzione, perché segna e conferma un altro di quei cambiamenti, apparentemente impercettibili, che ci stanno passando sulla pelle e a cui dobbiamo abituarci poco alla volta. Mutamenti epocali.
Il non andare in vacanza – o il centellinarne poche gocce – ci fa infatti arretrare di circa mezzo secolo, agli anni felici del boom del Paese, gli anni in cui i lavoratori salariati, insieme agli impiegati, poterono cominciare a godersi le due-tre settimane di ferie al mare o in montagna. Sì, come i «signori», potevano ambire a un soggiorno per mare o per monti, oppure a una casa vacanze, o a un viaggio anche in Paesi esotici, il tutto «spesato» dai contratti di lavoro e dal benessere raggiunto. Che magari ti aggiungevano il quattordicesimo stipendio.
Quella vacanza, come la stessa parola ci insegna, era la conquista di un tempo «vuoto», senza lavoro e senza pensieri di lavoro, ma, soprattutto, retribuito, sino a diventare un arricchimento della condizione dell’esistenza. Per due-tre settimane la morsa allo stomaco e gli screzi e le preoccupazioni delle ore trascorse in fabbrica o in ufficio lasciavano spazio al loisir, al senso pieno del piacere. Una conquista di status e un segno di ascesa, sociale e psicologica.
Il gruzzoletto e i giorni di vacanza oggi vanno invece in primis dedicati a coprire qualche situazione, a sistemare qualche conto in sospeso. Resteranno, insieme ai desideri, gli spiccioli per i ponti e i mordi e fuggi – un’arte in cui, chissà forse anche per questo, siamo diventati imbattibili. E intanto ne risente la salute collettiva del paese, la testa di ognuno di noi, ma anche i consumi e i servizi di una economia, come quella del turismo e dei consumi, sempre più centrali, e fragili, nella transizione.