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Lavarsi le mani: quando gli innovatori destano scompiglio

 
Pino Donghi

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Pino Donghi

Lavarsi le mani: quando gli innovatori destano scompiglio

E niente a che fare con destra e sinistra, per essere chiari, che le categorie sono tutt’altro che sovrapponibili. Pure, nell’ascoltare o leggere più d’uno sempre pronto a scagliarsi contro l’ultima idea, la più recente innovazione tecnologica

Martedì 16 Maggio 2023, 14:00

Che rabbia, a rileggere certe storie. Ignaz Philipp Semmelweis, medico di origini ungheresi, era arrivato al Meternity Hospital di Vienna nel 1846, lavorando nel primo reparto, insieme ai medici e agli studenti di Medicina: nel secondo si concentravano invece le ostetriche e le balie. Un giorno, dopo aver visto morire l’ennesima giovane paziente scossa da brividi violenti e con lancinanti dolori al ventre appena il giorno dopo aver partorito, si mise a studiare le ragioni di quelle frequentissime «febbri da parto».

La storia è nota. Confrontando le cartelle cliniche dei sei anni precedenti il suo arrivo, scoprì che nel «suo» reparto, quello dei medici, il tasso di mortalità dopo il parto era del 98,4 per mille nascite, nell’altro reparto, solo del 36,2. Un giorno, incontrando due colleghi che venivano da una dissezione di cadavere nella sala autopsie, ebbe un illuminazione: e se quella significativa differenza tra i reparti fosse stata responsabilità dei medici, ignari e però portatori di qualche «particella cadaverica»?

Le ostetriche non eseguivano autopsie. In scienza e coscienza, propose ai colleghi di lavarsi con grande impegno le mani, usando ipoclorito di calcio, prima di passare da un settore a un altro. Il risultato lo conosciamo: in brevissimo tempo, un drastico calo delle febbri e delle morti da parto.

Tutto bene? Nemmeno per sogno! Insorsero i ginecologi più anziani: «E’ ridicolo e indecoroso doversi lavare le mani. Le puerpere vengono chiamate a lasciare questo mondo dal buon Dio e non certo per colpa dei medici». Buon Dio! Verrebbe proprio da dire.

Non era stato Semmelweis il primo a farsi balenare l’idea. Qualche anno prima un giovane americano, Oliver Wendell Holmes, medico laureatosi a Harvard, ma anche poeta e letterato, aveva già intuito e proposto che i medici dovessero accuratamente lavarsi le mani prima di aiutare le puerpere a partorire, evitando così di trasmettere loro l’infezione responsabile della febbre.

A ridicolizzarlo pensò il ginecologo di Filadelfia, Charles Meigs che etichettò «il sogno frizzante» del giovane e inesperto medico, per di più poeta, che evidentemente era solo sfortunato quando trattava le sue pazienti. Se chiudete gli occhi, potete sentire l’eco delle risate compiaciute dei baroni dell’epoca.

In Crimea sarà Florence Nightingale, «la signora con la lampada», a raccomandare a tutti le infermiere e ai colleghi di lavarsi spessissimo le mani e anche la faccia, più volte al giorno. Holmes era giovane e non si curò troppo del sarcasmo dell’anziano ginecologo. Lo stesso non capitò a Semmelweis.

In risposta, piccata, ai suoi detrattori, scrisse: «Non sono gli ospedali di maternità che devono essere chiusi per mantenere in salute le partorienti, basterebbe allontanare i professori di ostetricia per riuscire nell’intento». Fu lui ad essere allontanato. E di fronte alla sordità dei suoi colleghi cedette ad una depressione con gravi sintomi di delirio. Morì nel 1865 in un ospedale psichiatrico, con buona probabilità in seguito alle infezioni conseguenti le percosse ricevute dalle guardie. Buon Dio, di nuovo!

Sì perché c’è sempre un Charles Meigs pronto a schernire qualche giovane «frizzante», ci sono sempre i difensori della tradizione, a ostacolare il progresso delle conoscenze, timorosi che le nuove idee li consegnino prima del tempo all’inevitabile oblio. Succede anche nella scienza: il fisico Max Planck argomentava come «Una nuova verità scientifica non trionfa perché convince i suoi oppositori e li porta a vedere la luce, ma perché capita che i suoi oppositori muoiano e si faccia avanti una generazione nuova alla quale quella verità è diventata familiare».

Succede, e però nei casi come quello di Semmelweis, fa rabbia. Perché di tante dicotomie che, nel tempo, sembrano aver perso di definizione, consegnandoci una realtà fatta di molti grigi, piuttosto che di indiscutibili «bianchi o neri», l’opposizione tra l’atteggiamento conservatore e quello progressista sembra invece mantenere un certo vigore.

E niente a che fare con destra e sinistra, per essere chiari, che le categorie sono tutt’altro che sovrapponibili. Pure, nell’ascoltare o leggere più d’uno sempre pronto a scagliarsi contro l’ultima idea, la più recente innovazione tecnologica, l’emergere di un pensiero originale anche se ancora impreciso, rivendicando l’ovvietà delle proprie convinzioni mentre affetta indignazione per ciò che è «ridicolo e indecoroso», non bisognerebbe mai dimenticare la tragica fine di Ignaz Philipp Semmelweis, morto a forza di botte.

Da noi, i lividi e le ferite, per lo più sono morali, anche se uccidono i sogni. Altrove nel mondo, guardare davanti a sé con occhi frizzanti, può ancora costare la vita.

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