Fare figli per salvare la «patria», combattere la denatalità e scongiurare il rischio estinzione della propria comunità. Ma veramente pensiamo che alla base della scelta di diventare genitori oggi siano questi i motori decisionali? Se sì, siete pazzi. Con rispetto. Mai avrei fatto un figlio per farmi carico dell’emergenza denatalità, mai «essere esente da tasse» mi indurrebbe a farne più di uno. Non sono un forno al servizio della «nazione». Penso, rifletto, decido, scelgo. Prima di tutto per me stessa.
Agevolare con sgravi fiscali, servizi e welfare, chi vuole fare famiglia è sacrosanto, ci mancherebbe. Pensare però che questi siano criteri sufficienti per indurre a procreare è da irresponsabili. Farsi carico di una vita, assumersi la responsabilità (per sempre) della genitorialità non è solo una scelta da fare in base a criteri economici. Ma poi, in generale, mi domando: chi non ha figli o non ne vuole, non ha ugualmente diritto agli stessi servizi e welfare? Non merita, come chi procrea, una società moderna, sana, equa, rispettosa?
Il grande assente in questo confronto che si ripropone ciclicamente, è l’io e la sua evoluzione culturale. Le ragioni che hanno spinto me e mia nonna a diventare madri sono le stesse? No, non lo sono. Un minimo di analisi culturale intergenerazionale aiuterebbe a comprenderlo e ad accettare che c’è una cosa che si chiama «evoluzione» e va rispettata. Se da un po’ si fanno meno figli e se ne fanno in età più adulta le ragioni sono tante: demografi, sociologi ed antropologi lo spiegano bene. L’emancipazione femminile, la presa di coscienza dell’esistenza di sessualità diverse, la crisi del modello di «famiglia tradizionale», sono parte di questo enorme cambiamento. Sempre più donne negli ultimi decenni sono diventate madri perché l’hanno scelto e non perché dovevano, perché era consono al ruolo della donna nella società.
L’assenza di servizi, il gap salariale femminile, le percentuali di donne che perdono il lavoro dopo il primo figlio, l’emorragia di nidi e servizi sono senz’altro disincentivi da scardinare. Ma non sono l’unica ragione alla base della denatalità.
Quando poi un tema così delicato si incontra con una visione nazionalista e identitaria (dobbiamo fare figli per fermare la «sostituzione etnica») ecco che non c’è più nemmeno da restare seduti al tavolo della discussione. Dicesi «sostituzione etnica» una teoria complottista in base alla quale l’immigrazione di massa è voluta per cancellare i bianchi di fede cristiana e sostituirli con immigrati dall’Africa e Medio Oriente. Tesi molto cara ai nazisti, rispolverata dai suprematisti che hanno dato vita ad alcune delle stragi più dolorose degli ultimi tempi, soprattutto in America.
Ma torniamo alla denatalità: la scelta di non avere figli o di averli ma in età matura, o di averne ma solo uno, per esempio, non gode di rispetto e considerazione un po’ come il fenomeno della great resignation (grandi dimissioni). Nei primi 9 mesi del 2022 le dimissioni volontarie sono aumentate del 22% rispetto all’anno precedente (Ministero del Lavoro). Quest’anno le stime ipotizzano che 3 giovani lavoratori su 4 lasceranno il proprio posto di lavoro. Molti definiscono la great resignation come un fenomeno mediatico e americano. La verità è che invece tra i millennials, ossia chi oggi ha tra 40 e 25 anni, il rapporto tra lavoro e vita privata è cambiato o sta cambiando rispetto a quello che avevano i nostri nonni e genitori.
Sovraccarico di lavoro, desiderio di cambiamento, riscoperta del valore della vita privata, perdita di punti di riferimento, demotivazione, sono alcune delle ragioni che spingono sempre più persone a lasciare i propri incarichi. Per le nuove generazioni il lavoro deve generare anche benessere emotivo per essere sostenibile.
Come si lega la great resignation alla denatalità e all’esigenza di combatterla? Non si lega per forza, però alla base di entrambi i fenomeni c’è - a mio parere - la stessa incapacità di interpretarli con le lenti del tempo in cui viviamo.
Poi per carità: fateli gli asili, i servizi municipali, i voucher per le rette scolastiche, le palestre, i teatri, le biblioteche, la flessibilità degli orari aziendali per venire incontro alle esigenze familiari, discutiamo anche di quoziente familiare (se il modello di famiglia però non è solo quello benedetto da Gesù). E fateli subito, siete colpevolmente in ritardo. Accettiamo però anche il fatto che mia nonna ha partorito undici figli, è stata una protagonista del boom delle nascite in Italia, io no.
C’è poi un ultimo grande problema: si continuano a mettere insieme tra loro argomenti molto differenti che richiederebbero piani di discussione separati. Denatalità e flussi migratori e un altro grande classico. Da una parte la destra che - per bocca della premier Giorgia Meloni - afferma che non è vero che servono più immigrati in Italia, sono le donne le grandi risorse del mondo del lavoro. E qui la domanda è: ma quindi, visto che i migranti in Italia si occupano soprattutto di cura di anziani e bambini, lavoro domestico o sfruttati nelle campagne, devono sostituirli le donne italiane?
Dall’altra parte c’è poi la sinistra che - come un disco rotto - continua a ripetere che servono immigrati perché senza di loro non pagheremo più le pensioni. Basta! Cambiate slogan. Non è un’affermazione né simpatica né comprensibile. È come dire che ci servono immigrati per quei lavori di fatica che noi non vogliamo (giustamente) fare più perché sottopagati e sfruttati. L’immigrazione attraverso canali regolari è un diritto a prescindere da ciò che ci serve. Punto.