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Kosovo e Serbia ai ferri corti: l’Italia in prima linea per mantenere la pace fragile

 
Marisa Ingrosso

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Marisa Ingrosso

Kosovo e Serbia ai ferri corti: l’Italia in prima linea per mantenere la pace fragile

È proprio sulla libertà di circolazione all’interno del piccolo Paese che può consumarsi il disastro di un fallimento in mondovisione della più grande sfida continentale del multilateralismo a trazione occidentale

Martedì 13 Dicembre 2022, 14:07

Sarebbe un grave errore derubricare a screzio regionale le barricate e i blocchi stradali dei serbi che vivono nel nord del Kosovo. È proprio sulla libertà di circolazione all’interno del piccolo Paese incastonato tra Albania, Serbia, Montenegro e Macedonia del Nord che può consumarsi il disastro di un fallimento in mondovisione della più grande sfida continentale del multilateralismo a trazione occidentale e di cui la libertà di movimento è presupposto strategico e architrave politico. Se questo si verificasse, il prezzo sarebbe esorbitante, in termini di stabilità nei Balcani Occidentali ma anche di affossamento della appena riconquistata (dopo il 24 febbraio) credibilità della Nato e di quella dell’Unione europea, già fortemente compromessa dallo scandalo senza precedenti della presunta corruzione qatariota.

Espressamente prevista dalla Dichiarazione universale dei diritti umani  (art. 13, «Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato»), la garanzia della libertà di movimento nel Kosovo è potente snodo simbolico e punto qualificante dell’intera architettura post-bellica, di transizione e di stabilizzazione dell’area. Lo prevede esplicitamente la risoluzione 1244 adottata dal Consiglio di Sicurezza Onu nella sua 4011ª seduta, il 10 giugno 1999, che indica tra «le responsabilità della presenza di sicurezza internazionale da dispiegare e da far agire in Kosovo» proprio l’«assicurare la protezione e la sicurezza di movimento per se stessa, per la presenza civile e per le altre organizzazioni internazionali».

Come ricorda il sito ufficiale del ministero della Difesa italiana, «continuare a contribuire al mantenimento della sicurezza e della libertà di movimento (safe and secure environment and freedom of movement)» è il primo obiettivo dell’operazione Nato  Kfor-Kosovo Force cui il nostro Paese contribuisce  con  852 militari, oltre che con 137 mezzi terrestri e un mezzo aereo, avendone anche la responsabilità del comando, dal 10 ottobre scorso, col generale di Divisione Angelo Michele Ristuccia, che è il 13° comandante italiano alla guida della missione.

Né bisogna dimenticare che le barricate in Kosovo sono simulacri, totem all’odio interetnico, come i blocchi che, per anni, hanno reso invalicabile  il ponte forse più simbolico di tutti ovvero quello che, a Mitrovica, città situata nel nord del Paese, congiunge le due differenti etnie, albanese -a sud del fiume Ibar – e serba nella zona nord.  Ci vollero anni di trattative perché si arrivasse a eliminare quelle barriere e per arrivarci fu necessario addirittura una sorta di accordo di pace separato, sottoscritto a Bruxelles il 22 luglio 2014.

A ben vedere, anche la penultima crisi, quella che nei mesi scorsi ha rischiato di far deflagrare uno scontro armato, gravitava attorno al medesimo tema: la libertà di movimento, i documenti di chi entrava in Kosovo e le targhe dei serbi residenti. Problemi che, peraltro, avrebbero dovuto essere già stati risolti con l’Accordo sulla libertà di movimento del 2 luglio 2011 tra Pristina e Belgrado e che avrebbe  dovuto consentire ai cittadini di viaggiare liberamente all’interno o attraverso il territorio l’uno dell'altro.

Queste barricate serbe erette di fresco, dunque, sono molto più che un intoppo alla viabilità,  sono un cavallo di Troia che nasconde in pancia una sfida aperta e un attacco alla diga normativa su cui si basa (si dovrebbe basare) la convivenza pacifica in territorio kosovaro. Inoltre, sono un vistoso inciampo per la capacità euroatlantica di mantenere gli impegni e farli/farsi rispettare. Tanto che non stupisce affatto che da Pristina il premier Albin Kurti abbia minacciato di intervenire con le proprie forze per smantellare i blocchi stradali che la Nato non riesce a togliere e che, al contempo, da Belgrado il presidente Aleksandar Vučić abbia chiesto proprio alla Nato il permesso di far intervenire le proprie armate a protezione delle comunità serbe che – questo il sottotesto - evidentemente, la Kfor non è in grado di difendere.

È in questa cornice che bisogna leggere anche la granata stordente lanciata sabato contro una pattuglia della missione europea Eulex. Come spiegato da fonti della Difesa alla Gazzetta, nessun carabiniere o militare italiano è rimasto coivolto. Ma resta il fatto che s’è trattato di un attentato dimostrativo contro chi si occupa di garantire la libertà di movimento nel piccolo Paese d’oltre Adriatico. Dal canto suo la Russia, attraverso l’ambasciatore a Belgrado Aleksandar Bocan-Harchenko, ieri ha detto che «in Kosovo siamo all’ultimo miglio» prima di un aperto conflitto.

Non resta che rimuovere gli ostacoli verso la stabilità, prima che sia troppo tardi.

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