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Le carceri sempre più sovraffollate e «rifugio dei deboli»

Le carceri sempre più sovraffollate e «rifugio dei deboli»

 
Nunzio Smacchia

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Nunzio Smacchia

Le carceri sempre più sovraffollate e «rifugio dei deboli»

Si deve intervenire quanto prima sul decongestionamento, se si vuole evitare un aggravamento delle inquietudini e delle tensioni esistenti all’interno degli Istituti, che porti a un processo di «normalizzazione» fatto di sicurezza e governabilità

Giovedì 10 Novembre 2022, 13:24

Il nuovo governo è chiamato a risolvere, almeno in parte, le molte problematiche che esistono all’interno degli Istituti penitenziari: il sovraffollamento, i suicidi e i detenuti in attesa di giudizio. Il Carcere è abitato dai più «indifesi», dai più deboli, dai «rifiutati», è diventato un luogo in cui i veri criminali vanno sempre meno e dove si accalcano gli esclusi e i più fragili. Tra questi ci sono senza dubbio i tossicodipendenti, anche se gli studiosi, e non solo loro, si battono per estrometterli dalle galere per la loro specificità soggettiva. Questi disastrati spesso vogliono stare dentro, perché fuori la società non li vuole più accogliere, non comprende il loro disagio psicologico, lasciandoli in balìa di se stessi.

Si deve intervenire quanto prima sul decongestionamento, se si vuole evitare un aggravamento delle inquietudini e delle tensioni esistenti all’interno degli Istituti, che porti a un processo di «normalizzazione» fatto di sicurezza e governabilità.

La piaga che negli ultimi tempi si sta allargando sempre di più è quella dei suicidi. Molti detenuti, negli ultimi tempi, pur essendo di sana e robusta costituzione, non avendo nemmeno problemi psichiatrici, si sono suicidati: alcuni, sfilando i lacci delle scarpe, hanno formato un cappio delle dimensioni del loro collo, altri si sono impiccati o si sono tagliati le vene. È il «male oscuro» che opprime i carcerati, ma anche coloro che sono chiamati a sorvegliarli.

Le statistiche suicidarie sono in stretta correlazione con il sovraffollamento, che è, purtroppo, una triste realtà e costituisce una concausa. Il dato inaspettato e più sconcertante è quello che misura la distanza temporale tra il gesto definitivo e il fine pena.

Contrariamente a ciò che si può pensare, i più deboli non sono quelli che hanno davanti l’ergastolo o condanne lunghissime, ma coloro ai quali manca poco alla fine della detenzione. Perché allora decidere di togliersi la vita, di farla finita? La verità è che soffrono la paura del rientro in società, hanno timore del reinserimento soprattutto quando si è indigenti, o non si ha nessuno che li aspetti fuori, e che quindi sono sicuri di essere condannati a una vita da reietti.

Su un dato bisogna riflettere: l’età media è intorno ai 37 anni. Il che significa che i giovani sono meno capaci di affrontare la carcerazione, si rendono conto di finire nel vicolo cieco dell’inutilità. Sono consapevoli che il tema Carcere è diventato marginale, che la politica non se ne interessa e che non è più al centro della discussione pubblica; tutto questo porta alla frustrazione e alla consapevolezza che si trasforma in ozio, l’ozio in disagio e che le corde dell’assoluta emarginazione prendono a vibrare.

Molti detenuti non riescono a completare gli studi, perché vengono spostati continuamente da un Istituto all’altro. In Italia il tasso dei suicidi è venti volte superiore a quello della popolazione libera ed è tra i più alti in Europa. Studi recenti hanno evidenziato che ci si suicida alcuni giorni dopo l’ingresso o nei primi mesi. I nuovi entrati sono consapevoli che il carcere è un vero contenitore sociale, dove è rappresentata tutta la fauna della criminalità esistente, un mondo a sé stante, che ha la sua vita, le sue regole ferree che nessuno conosce bene se non si è stati «dentro». È un invaso altamente criminogeno, un vulcano pronto a esplodere, se non si sanno contenere i malumori e le agitazioni con una politica di intelligente «accomodamento».

Il carcere può continuare a essere una perversione istituzionale, un ricettacolo di alienati, di poveri, di disagiati mentali, una «discarica» umana, come più volte è stato detto.

L’ultimo nodo da sciogliere è quello drammatico della carcerazione preventiva che paga la fisionomia strutturale e le difficoltà di funzionamento pratico dovuto all’attuale lentezza dei processi. Questa classe di detenuti, purtroppo, occupa il 42% dell’intera popolazione penitenziaria. Tale assurda incongruenza danneggia i detenuti in attesa di giudizio o di una sentenza definitiva, perché non possono usufruire delle misure alternative alla detenzione previste dall’ordinamento penitenziario; in molti casi il periodo di carcerazione preventiva paradossalmente finisce per essere pari o addirittura superiore alla pena che verrà inflitta definitivamente con sentenza passata in giudicato. Per non parlare di quei casi in cui alla fine della carcerazione preventiva, lunga o breve che sia stata, il detenuto si vede definitivamente assolto dall’imputazione per la quale è stato in carcere (?!). È un’anomalia indegna di un sistema giudiziario che passa per essere uno di quelli con più alta qualità giuridica al mondo. La detenzione preventiva deve imperativamente mantenere un carattere eccezionale e non deve servire, in alcun modo, come mezzo di pressione per ottenere confessioni. Questa è una spina nel fianco del sistema giuridico-processuale. E sempre nel quadro dei rimedi di «sfoltimento« carcerario è ora di pensare come «controspinta» a un maggior utilizzo e potenziamento dei centri di servizio sociale e delle strutture correlate (Enti locali, cooperative, ecc.), in modo da assicurare operatività alle misure alternative e renderle più «premiali» e meno «clemenziali». Occorre una «strategia differenziata» tra le forze politiche, legislative e giudiziarie per l’adozione di nuove tipologie di pena, più brevi e meno afflittive, e creare un nuovo equilibrio tra il sistema penale e penitenziario, nella prospettiva di una scrupolosa osservanza della legalità.

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