Tra le tante emergenze che reclamano risposte dalle forze politiche che si candidano alla guida del Paese, assieme al lavoro, al potere d’acquisto di salari e pensioni, alle tutele sociali, c’è il tema della coesione territoriale e quindi dello sviluppo del Mezzogiorno quale elemento imprescindibile per la crescita di tutto il Paese. Riduzione dei divari che è alla base della straordinaria dote assegnata all’Italia a valere sulle risorse del Next Generation EU.
Una priorità però non condivisa da tutti i partiti se è vero che di proposte sul Mezzogiorno abbiamo letto e ascoltato poco fino a questo momento, mentre è tornato in auge il tema dell’autonomia differenziata delle regioni del nord, «la secessione dei ricchi» come l’ha definita il professor Gianfranco Viesti, che porterebbe a un aumento dei gap territoriali o nella migliore delle ipotesi spingerebbe a cristallizzare le differenze. Un po’ quanto accaduto in verità in questi decenni, seguendo nei trasferimenti pubblici la logica della spesa storica e dei fabbisogni standard. Se si vanno a guardare i report del Sistema Conti Pubblici Territoriali dell’Agenzia per la Coesione Territoriale, si scopre come - prendendo in esame il cosiddetto “settore pubblico allargato”, formato dalla Pubblica amministrazione incluse le imprese a controllo pubblico impegnate nella produzione di servizi destinati alla vendita - la spesa pubblica pro capite per le regioni del centro nord nel 2019 è stata pari a 17.363 euro, in confronto ai 13.607 euro delle regioni del Mezzogiorno. La Puglia è nello stesso la terzultima regione italiana per spesa pubblica pro capite, con 13.637 euro. Dietro solo Campania e Calabria, sopra la Sicilia. Tutte regioni del Mezzogiorno.
Tra la prima regione che è la Val d’Aosta e l’ultima, la Calabria, vi sono oltre 12mila euro di differenziale pro capite.
Ancora, se confrontiamo la Puglia con una regione demograficamente simile qual è l’Emilia Romagna, vediamo come solo considerando i dati dal 2011 al 2019, ogni cittadino pugliese ha beneficiato di 32.380 euro in meno. Se poi consideriamo che i principali settori di spesa sono la sanità, l’istruzione, il funzionamento della pubblica amministrazione, gli interventi in campo sociale, si comprende come i territori del Sud – quelli che reclamano maggiori ritardi in termini di servizi e di sviluppo - siano stati penalizzati. Altro che propaganda egoista sul residuo fiscale. Senza la necessità di richiamare l’articolo 119 della Costituzione, dove si afferma che lo Stato «promuove lo sviluppo, la coesione e la solidarietà sociale e rimuove gli squilibri economici e sociali», tra territori e tra persone, tra chi ha di più e chi ha di meno, dentro i confini di una stessa regione e tra diverse regioni perché fino a prova contraria l’Italia è una paese e non una confederazione di stati, la lettura del residuo fiscale non tiene conto proprio della spesa pro capite e soprattutto di un dato che dovrebbe interessare le regioni più ricche: il mercato di 20 milioni di persone che vive nel Mezzogiorno del Paese ha un import che per il 70% proveniente dalle regioni del Nord. Se la domanda interna dei territori meridionali non viene sostenuta aumentando sviluppo, occupazione, salari, a rimetterci è tutta l’Italia, a partire dalle delle regioni più sviluppate.
Motivo per cui vanno usate al meglio le risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza, rispettando la destinazione del 40% alle regioni del Mezzogiorno. Ma anche in questo caso c’è da essere preoccupati: il monitoraggio di gennaio 2022 del Dipartimento per le Politiche di coesione della Presidenza del Consiglio affermava come 9 ministeri su 22 non stavano rispettando la quota Sud. E i due dicasteri che avevano destinato meno risorse, attorno al 25%, erano quelli guidati da esponenti della Lega, ovvero il Mise e il Ministero del Turismo. Un paradosso, considerando l’importanza del settore turistico per le regioni del sud Italia e la necessità di un impulso decisivo allo sviluppo economico del mezzogiorno. Da qui il nostro appello affinché chi si candida a rappresentare questi territori in Parlamento abbia prima di tutto profonda conoscenza dei contesti che vivono le popolazioni e anche le imprese della Puglia, e assieme la capacità di ascoltare gli attori sociali.
La Cgil ha una sua proposta organica di sviluppo regionale: quali le infrastrutture necessarie, come rafforzare il sistema produttivo, come affrontare le sfide della transizione digitale e energetica, come irrobustire un welfare che è assieme fattore di tutela ma anche di sviluppo. C’è da dare risposte agli oltre 200mila disoccupati di questa regione, al crescente disagio sociale e all’aumento delle povertà, ridare speranze a quel 30 per cento di giovani Neet che non è impegnato in percorsi di formazione e nemmeno lo cerca un lavoro, probabilmente perché sfiduciati circa la dalla possibilità di trovare una buona occupazione, in un territorio dove il 60% delle imprese ispezionate non è in regola in materia di lavoro. Non ci servono slogan o promesse insostenibili, ma idee e programmi necessari a costruire un futuro di progresso per la Puglia dentro un Sud - e quindi un Paese - più competitivo e attrattivo, innalzando la qualità della vita dei cittadini.