«Per la sua molteplice attività di scrittore, docente, filosofo e politico, la giuria ha voluto ricordare uno dei suoi ultimi saggi, Paradiso e nubifragio, edito da Einaudi nel 2022, rilettura del romanzo L’uomo senza qualità di Robert Musil, per dimostrare come le riflessioni dello scrittore austriaco, all’inizio del Novecento, combacino con quelle contemporanee.» Con questa motivazione, stasera alle 17, la giuria presieduta dallo scrittore Raffaele Nigro, consegnerà un riconoscimento speciale all’intellettuale e politico italiano Massimo Cacciari, nell’ambito del «Premio letterario nazionale Carlo Levi», organizzato dal Circolo culturale Nicola Panevino e dal Comune di Grassano.
«È un saggio - commenta il filosofo - che ho scritto pensando alla possibilità di riflettere su quel passato in funzione del nostro presente, perché Musil ambienta il suo romanzo in un momento storico dell’Impero austro- ungarico alla vigilia della catastrofe della Prima guerra mondiale e rappresenta un mondo che è del tutto inconsapevole di correre verso questa catastrofe. Tutti vivono rimuovendo il pericolo che incombe, vivono da ciechi e incoscienti, e credo che riflettere su romanzi che hanno questa dimensione epico-storica sia importante oggi perché i paralleli ahimè sono molto numerosi».
Da Musil a Carlo Levi, qual è a suo avviso, il lascito di questo grande intellettuale?
«Levi come tutti gli antifascisti autentici ha compreso le ragioni di una grande tragedia che ha portato poi all’affermazione dei Totalitarismi in Italia, in Germania, in Spagna, in Portogallo e in generale in quasi tutta Europa. È uno tra i tanti intellettuali che hanno compreso la tragedia che stavano vivendo, che ha cercato di opporsi, troppo tardi però, all’affermazione di questi regimi totalitari. È un intellettuale che rappresenta quella grande crisi e la volontà di uscirne».
Nei sui scritti Carlo Levi ha anche sollevato la questione meridionale.
«La grande questione irrisolta del nostro Paese. Dopo la Seconda Guerra mondiale fu al centro delle politiche economiche dei Governi ma anche delle forze politiche, dal Partito Comunista, a quello Socialista fino a gran parte della Democrazia Cristiana. In sostanza nel secondo dopoguerra c’è stata una linea politica che puntava sull’industrializzazione di massa e in quel contesto parlare di industrializzazione aveva un significato. Ma già negli anni ‘70 e ‘80 era chiarissimo che non si poteva pensare al Mezzogiorno come una grande piattaforma manifatturiera. Era una grande strategia, ma è chiaro che poi va in crisi, perché tutte le grandi piattaforme europee entrano in crisi, tutte devono trasformarsi e noi non siamo stati in grado di trasformare la linea politica del Mezzogiorno».
Il riferimento è anche a Taranto?
«Qui si è rimasti aggrappati disperatamente a una linea manifatturiera che era stata superata in tutti i paesi europei. Da politico ho seguito tutti i problemi della trasformazione industriale tra gli anni ‘70 e ‘80. Ricordo i dibattiti e le discussioni, e chi ragionava capiva anche allora che non era possibile continuare su quella linea, che sarebbe stato solo uno spreco pazzesco di risorse, come poi è avvenuto. Non c’è stato dunque un mutamento di strategia di fronte a un mutamento globale della situazione economica. È stato il fallimento totale del meridionalismo».
La strada percorribile?
«Sostenere e finanziare le iniziative locali che sono vere risorse del Paese, e in questo l’ esperienza di Matera insegna, invece di inseguire il salvataggio di strutture che non possono durare».