Ventidue mesi di carcere e diciotto udienze per un processo che lo vedeva imputato per sedizione e diffusione di notizie false on line. Patrick Zaki ha trascorso quasi due anni dietro le sbarre in Egitto quando fu arrestato il 7 febbraio 2020 poco prima di prendere un aereo per l’Italia, dove studiava all’università di Bologna. Le torture, l’isolamento, la mobilitazione internazionale e finalmente la grazia nel luglio scorso.
Il ricercatore e attivista egiziano è stato ieri a Bisceglie in mattinata ospite del festival Libri nel Borgo Antico in collaborazione con la circoscrizione Puglia-Matera di Amnesty International Italia e il gruppo 317 Amnesty International Bisceglie. Ieri sera Zaki è stato alle Vecchie Segherie Mastrototaro per la cerimonia di premiazione del contest Art for Rights sul tema «La tortura: assolutamente proibita ma universalmente praticata, 40 anni di impegni disattesi». Con lui il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury e l’attivista Mohamed Dihani e Valeria Ricchiuti, responsabile gruppo Amnesty International Bisceglie. Questa sera, alle 19, sarà alle Officine Cantelmo di Lecce, con l’associazione Diffondiamo idee di valore e il festival Conversazioni sul futuro, in collaborazione con Amnesty International Italia, con Tina Marinari, che ne coordina le campagne, e il giornalista Pierpaolo Lala. Al centro degli incontri il suo libro Sogni e illusioni di libertà (La Nave di Teseo, pp. 256, euro 19).
Zaki, nel libro lei racconta la sua prigionia. Come è iniziato tutto? Qual è stato il motivo?
«Principalmente per il mio attivismo. Il governo egiziano ha utilizzato gli articoli che ho scritto sulla minoranza religiosa quale motivo per legalizzare il mio imprigionamento. È ovvio che quella non era la ragione. Sono stato lì per un anno e otto mesi e nessuno ne ha parlato di quegli articoli. In realtà è stata una punizione per il mio lavoro in favore dei diritti umani. Tutto è iniziato in aeroporto quando mi hanno fermato e mi hanno detto che c’era qualcuno che aveva il mio stesso nome, ma non ci sono centinaia di Patrick Zaki che lavorano nell’ambito dei diritti umani, quindi ero io. MI aspettavano da due giorni, mi hanno strappato il visto per l’Italia e già lì hanno iniziato a picchiarmi».
È stato anche torturato?
«Sì certo, ho scritto di questo nel mio libro. Ci sono diverse fasi di tortura nelle carceri egiziane, la tortura fisica – sono stato sottoposto a delle scariche elettriche - e quella psicologica. E sono entrambe tremende. Un’altra cosa che mi ha fatto molto soffrire è il fatto che mi abbiano tagliato i capelli. Ero in una cella con altre cinquantadue persone».
Il Governo italiano ha lavorato per la sua liberazione e tutti, a prescindere dai colori politici hanno condiviso la sua battaglia. Era un atto dovuto secondo lei?
«Certamente sono grato ai governi che hanno lavorato per me ma sicuramente quello che mi sta più a cuor è che tantissime persone qui in Italia si siano battute per me, spingendo ben due governi egiziani per la mia liberazione. Non mi sono mai sentito abbandonato da questo punto di vista».
Lei però non parla ancora italiano. Perché?
«Parlo italiano così e così. Sono stato solo sei mesi in Italia e poi due anni in prigione in Egitto. Ora lo sto imparando molto meglio. Quando mi fanno questa domanda però penso sempre che sarebbe bello che tutti parlassero anche un po’ l’arabo».
Recentemente alcune sue dichiarazioni riguardo il conflitto arabo-israeliano, di appoggio alla Palestina, hanno fatto discutere. Cosa vuol dire in proposito?
«Sono dalla parte della Palestina ma assolutamente contro la violenza nei confronti di tutti i civili. Bisogna parlare assolutamente di cessate il fuoco. Ci sono uccisioni di donne e bambini, tutto questo è inaccettabile. Ci sono ostaggi civili che devono rientrare nelle loro famiglie».
Lei si è laureato, e sappiamo che di recente si è sposato. Cosa farà ora?
«Resterò in Italia, a Bologna, dove sto facendo un dottorato come ricercatore per i diritti umani. È questa la mia strada».
CITTADINO ONORARIO DI MOLFETTA: CHIEDO CESSATE IL FUOCO
«È un momento critico per i diritti umani e io da attivista voglio chiedere il cessate il fuoco in qualunque parte del mondo in cui c'è una guerra» perché "ognuno deve avere il diritto alla libertà e alla pace». Lo ha detto Patrick Zaki ricevendo oggi la cittadinanza onoraria di Molfetta (Bari) che gli era stata conferita due anni fa mentre era in prigione in Egitto.
Alla cerimonia che si è svolta in Comune, hanno partecipato anche gli studenti del liceo artistico della città che gli hanno donato delle piccole creazioni in occasione della giornata mondiale della gentilezza. «Il mio lavoro di attivista continua perché il mio desiderio è che pace e libertà possano essere garantiti ovunque nel mondo», ha continuato Zaki. «Durante la mia prigionia ci sono stati momenti difficili e ricordo quando in quella cella piccola e buia avevo perso la speranza di tornare libero. A darmi forza siete stati voi, sono state le tante persone che nelle piazze italiane manifestavano per la mia libertà - ha aggiunto - e a voi studenti dico che combattere per i diritti umani e per la libertà non è mai vano».
Zaki ha anche evidenziato che sta studiando l’italiano "perché ormai qui mi sento a casa e voglio migliorare la mia comunicazione con voi». «Grazie Molfetta», ha poi dichiarato. "Molfetta ha una lunga storia di impegno civile e con don Tonino Bello ha vissuto il momento entrato nella coscienza popolare. Diamo la cittadinanza onoraria alla tua persona e al significato della storia che tu hai vissuto e che rappresenti», le parole del sindaco di Molfetta, Tommaso Minervini.