Devo evitare fitte al cuore scrivendo del dialogo tra Pino Pascali e Ugo Mulas in scena da ieri sera nel Museo di Polignano a Mare. La mostra verte infatti sui tre cicli che il grande fotografo milanese dedicò all’artista pugliese nel 1968, l’ultimo suo anno di vita gloriosa. Nelle foto scattate in giugno alla Biennale di Venezia, alcune mostrano Pino mentre si aggira nella sua sala personale fra le opere ancora in allestimento – proprio come lo vidi io in un incontro fuggevole, con la promessa di rivederci presto. In un’altra discute all’esterno del Palazzo Italia ai Giardini con un capannello di contestatori, artisti e giornalisti. C’è infine il telegramma consunto col quale chiudeva la sua sala, protestando per il sopruso subito. Così un’aria di inquietudine del Sessantotto s’insinua nelle immagini di un fotografo che sin dalla fine dei ‘50, dai tempi del mitico bar Giamaica, si era fatto conoscere per il talento nel riprendere i comportamenti degli artisti, privilegiando «l’aspetto festoso dello stare insieme, del guardare, dell’esibire e dell’esibirsi».
Sollecita rivelazioni e ripensamenti, la rassegna ideata e curata con passione da Alessio de’ Navasques, il giovane operatore culturale partito da Bari per affermarsi a Roma in ricerche e iniziative fra moda e arte. Con 41 foto concesse dall’Archivio Mulas - quasi tutte poco note o addirittura inedite - ricostruisce per la prima volta gli incontri di Mulas con l’artista emergente a Roma. La prima e fondamentale occasione è la committenza affidata al fotografo da Fausto Lucchini, geniale direttore creativo di «L’Uomo Vogue», l’innovativa rivista (bimensile prima, mensile poi) da lui fondata a Milano nel 1967: aggiungere Pascali alla lista di artisti di nouvelle vague invitati a «mettersi in posa» per una pubblicazione che audacemente coniugava arte e moda, sul vento che soffiava dall’Inghilterra dei Beatles, di Mary Quant, dei raduni hippies. La serie era stata aperta dal maestro italiano della innovazione, Lucio Fontana, già immortalato da Mulas nel gesto decisivo dei Tagli. Fra i primi c’è anche Giangiacomo Feltrinelli (l’editore «rosso») anche lui fieramente impellicciato come Fontana.
Così Pascali viene fotografato da Mulas nel suo studio a Roma – doveva essere la primavera del 1968 - con una delle nuove opere che stava per presentare alla Biennale, un «Cavalletto» primitivo fatto di legno e raffia, con piano ribaltabile in pelo acrilico nero. Lui sta in tenuta nera, un po’ da apache di Porta Portese. Si presta volentieri a posare seduto o sdraiato davanti o dentro il Cavalletto che si fa tenda – o giaciglio, quando è ripreso dall’alto con testa in giù: aggiungendo così altri tableaux vivant a quelli che improvvisava accanto alle sue opere. Però Mulas decontestualizza la composizione, il corpo e l’oggetto si stagliano nel bianco e nel vuoto come icone astratte. Anche il plastico primo piano della grande testa riccioluta, l’icona più diffusa in seguito da libri cataloghi e film. È una procedura insolita nella sua fotografia. Implica un lavoro sui negativi, operato non so quando: anche perché queste foto non apparvero mai su «L’Uomo Vogue», probabilmente per la scomparsa dell’artista l’11 settembre del 1968. Una sola – più tradizionale, in piedi – si ritrova nella serie pubblicata nel n.3 del 1969, «Sette più sette artisti dì oggi» che voleva comparare «abiti e opere». Nella mostra posano alcuni di loro, suscitando tenerezze vintage: Alviani, Boetti, Mondino, Adami, Scheggi e l’unico critico, Tommaso Trini.
Ora, a vedere insieme ben sei foto della serie Cavalletto, alcune inedite, il modo con cui Mulas propone Pascali come «uomo Vogue» ci pone problemi. È come se avesse già avviato le meditazioni sulla natura della fotografia che presero corpo, con piega duchampiana, nelle sette «Verifiche» eseguite e commentate nei due anni che precedono l’immatura scomparsa - anche lui - nel 1973, a 45 anni. «Non c’è ritratto più ritratto di quello dove la persona si mette lì, in posa, consapevole della macchina», scrive lì: ribaltando o rinnegando la cultura del reportage e la poetica bressoniana. Effetto lungo, forse, del viaggio che intraprese negli USA dopo la Biennale di Venezia del 1964, quella della Pop Art. Riprese gli artisti nei loro studi con una ricerca condensata nello storico volume «New York Arte e Persone» (1967). Ma incontra e fotografa anche Duchamp. Ed è messo in crisi dal grande Robert Frank che gli dice a sorpresa: «L’aria è divenuta infetta per la puzza di fotografia».
Altro intrigo mentale viene dalla struggente serie anch’essa inedita – scattata quasi certamente nella stessa trasferta romana – che rivela Pino mentre conversa e amoreggia con la sua ragazza Michelle Coudray sugli spalti del Lungotevere, in controluce di tramonto romantico, sino ad un bacio impetuoso. Mulas assiste come un voyeur indiscreto o complice, scarica un intero rullino da 36 scatti. A Polignano è esposto in unica stampa diretta (conosco solo un precedente, in una mostra da Lia Rumma nel 2015). E qui ritrovo un’altra delle sue Verifiche. Quando scrive: «Il tempo nella fotografia non scorre naturalmente… nello stesso istante coesistono tempi diversi. È l’ossessione dell’immagine ripetuta a far emergere la dimensione del tempo fotografico». Da questa ossessione concettuale emerge la foto isolata dell’artista ripreso di spalle da Mulas. È solo un cespuglio arruffato di capelli neri, mentre sulla pietra assolata si allunga l’ombra della sua ragazza seduta su un parapetto. Quasi ad accompagnare con lo sguardo dall’alto il tempo del distacco, dell’abbandono.
Il cerchio si chiude su un omaggio postumo di Mulas all’artista scomparso: sue opere esposte nella mostra «Vitalità del Negativo» curata nel 1970 da Achille Bonito Oliva nel Palazzo delle Esposizioni a Roma, lo Scheletro di dinosauro e i 32mq di Mare circa. I visitatori si affollano incuriositi e perplessi, qualcuno prova ad aggirarsi fra le vasche. Ma ormai Pino si era consegnato al tempo immobile dell’arte, oltre ogni moda.