Esordisce sulle tavole di un palcoscenico. Ed è sempre lui. E c’è tutto della sua idea politica nel monologo che Nichi Vendola ha portato in scena ieri sera a Bari sul palco del «Piccinni». La poesia del ‘900 per parlare di attualità, di disuguaglianze, di conflitti, degli «ultimi», della «peste allegorica dei nazionalismi», di femminicidi e dittatura del maschio. Camus, Alda Merini, Wislava Szymborska, Brecht, Pasolini, Scotellaro. Ma è sempre, soprattutto Vendola. Vola sempre in cima e poi, improvviso, scende in picchiata e colpisce: «Non sono pronto per la resa».
C’è il sold-out eppure non il pienone. In platea quanto resta di un decennio di vendolismo, ormai quasi azzerato con la dannazione della memoria che ha impiantato un altro -ismo: gli amici più cari, la sorella Patrizia, il regista Alessandro Piva, i «ragazzi» della Film Commission che Vendola ha inventato tante liti fa in quei dieci anni di governo della Puglia ormai irripetibili. A sentirlo poca (pochissima) politica politicante, niente del generone che ormai comanda a queste latitudini. L’assessore regionale Anna Maraschio, l’avvocato Michele Laforgia, alcuni dirigenti di lungo corso. Le teste che animavano le Fabbriche di Nichi sono sparse tra le poltrone, il Woolrich ha preso il posto dell’eskimo, i capelli argentati di chi ancora ce li ha. Sono soprattutto trenta-quarantenni, la generazione-Z di quelli che con lui hanno sognato la rivoluzione possibile: sono passati sette anni ma sembra un secolo.
Lo spettacolo si chiama «Quanto resta della notte», le notti di cui parla sono tante. Il linguaggio è sempre quello alto e altro dei trent’anni di politica tra la gente, delle tragedie pubbliche e dei dolori privati (ricorda commosso Gianni, il fratello maggiore scomparso a dicembre dopo una battaglia con il tumore) ma anche una gioventù proletaria e felice tra Terlizzi e le spiagge di Giovinazzo: «Noi tre fratelli e una sorellina, noi giocavamo e tutti giocavano». Vendola usa Kafka per dirne quattro ai giornalisti («Il piegarsi della giustizia ai riti del processo mediatico»), distilla Alda Merini («La libertà femminile non sarà fermata dai colpi di coda del patriarcato, ma noi maschi quando varcheremo le colonne d’Ercole della beata ignoranza di noi stessi?»), parla di morte («Spiega la vita e ne dipana la matassa») e di morti sul lavoro, di disagio meridionalista, di nostalgia e di Franco Cassano. E poi il messaggio sui vaccini («La pandemia ha cambiato quasi tutto. Il mondo non è diventato più giusto. Liberare la proprietà intellettuale del vaccino sarebbe non solo per gli altri ma anche un atto di protezione per noi stessi.
L’interesse collettivo è sempre subordinato a quello privato») e quello sulle guerre di oggi, con la «politica della pace lasciata a Papa Francesco. Fa apparire con le parole Alan Kurdi, il bimbo siriano di tre anni simbolo del dramma della nuova emigrazione, «monumento funebre all’Europa delle promesse mancate».
Ricorda «i giorni caldi di vent’anni fa», quelli del G8. «La generazione di Carlo Giuliani aveva liberato la nudità oscena del sovrano globale», attraverso la ribellione dei ragazzi di Genova: «Ma la risposta del re nudo fu la più spietata, fino al proiettile che colpì Carlo». Difende il comunismo ma non si nasconde dalle sue tragedie.
L’affondo arriva quando parla del «supermarket della politica»: «Si può persino vincere nelle urne e perdere nel linguaggio. La sconfitta non è perdere ma perdersi, perdere il sentimento di sé». Vincere, ma perdere. È cosa di oggi.