ANDRIA - Lo scorso 29 settembre la Polizia ha eseguito il fermo di indiziato di delitto emesso dalla Direzione Distrettuale Antimafia nei confronti di 5 indagati appartenenti al clan Pesce di Andria. Le accuse a carico dei 5 fermati sono estorsione ed usura, aggravata dal metodo mafioso, nonché detenzione illegale e porto in luogo pubblico di pistola.
Le indagini partite da un accurato lavoro della squadra mobile della Questura Bat, hanno portato all'operazione eseguita anche dal personale del Servizio Centrale Operativo - Sezione Investigativa di Bari e dalla Squadra Mobile di Bari. Tra i destinatari del decreto di fermo figurano soggetti ritenuti elementi di vertice del clan Pesce/Pistillo di Andria, nei confronti dei quali la DDA ha disposto il fermo in considerazione dell’escalation di violenza registrata dagli inquirenti, tale di richiedere l’adozione di urgenti provvedimenti cautelari, in ragione del gravissimo pericolo di fuga e di prosecuzione delle condotte illecite. I delitti contestati agli indagati costituiscono “solo un primo, assai parziale, spaccato dei reati ascrivibili agli indagati” che, subito dopo la scarcerazione di alcuni di loro (avvenuta in epoca relativamente recente), hanno dimostrato una rinnovata potenza criminale propria e del clan di appartenenza.
FILONE AUTONOMO ALL'INTERNO DEL CLAN - I prodromi della rinnovata pericolosità dei Pesce erano già emersi nell’ambito dell’inchiesta di questa DDA condotta dalle squadre mobili di Bari e di Barletta Andria Trani sul fenomeno dei cosiddetti “sequestri lampo” di persona. Le intercettazioni svolte, infatti, avevano consentito anche di registrare la preoccupazione degli ambienti criminali andriesi, allarmati dal sistema estorsivo avviato nel territorio andriese dal clan Pesce che, nell’ottica di successive dinamiche criminali, era divenuta un’autonoma articolazione rispetto al clan Pistillo, pur mantenendo rapporti non conflittuali; quindi, una “gemmazione” dell’associazione che ha visto congiunti del clan Pesce “automizzarsi” con un proprio sodalizio.
In questo contesto si inseriscono i gravi fatti contestati agli indagati, ovvero, un’estorsione consumata, aggravata dal metodo mafioso, contestata a due degli indagati in concorso tra loro. E poi un'ulteriore vicenda estorsiva palesata in più situazioni, che hanno abbracciato anche la fattispecie dell’usura, sempre aggravate dal metodo mafioso, contestate a cinque indagati in concorso tra loro. Infine, la detenzione illegale ed il porto in luogo pubblico di pistola, per cui dovranno rispondere due degli indagati, in concorso tra loro.
LE ESTORSIONI - La prima estorsione contestata è quella commessa ai danni di un appartenente alla Polizia Locale. Quest’ultimo aveva avuto un incidente stradale con uno degli indagati ed in relazione a tale fatto è stato costretto a riparare la macchina dell’indagato anche se non aveva alcuna colpa. Inoltre, è stato costretto a non denunciare all’assicurazione, subendo comportamenti propri dell’intimidazione mafiosa, in considerazione dello spessore criminale di chi aveva posto in essere tali comportamenti che era noto alla vittima. «Mi devi aggiustare la macchina di tasca tua, io nei tuoi panni non mi ci metto, se no ti strappo la testa. Come ti trovo in mezzo alla strada di schiaccio la testa come un verme», avrebbe detto uno degli indagati, intercettati, all’agente.
Il secondo episodio estorsivo vede come vittime più persone - legate tra loro da vincoli di parentela -, costrette con violenza e minaccia a dover pagare somme di denaro esorbitanti, quindi, con un tasso di interessi usurario, a fronte di un prestito iniziale richiesto da una delle vittime ad alcuni degli indagati. Il pagamento di questo prestito è stato seguito da un’impennata di violenza da parte degli indagati, tra cui i congiunti del clan Pesce, che hanno preteso ed ottenuto - passando anche alle vie di fatto - il capitale iniziale e un’ulteriore somma di decine di migliaia di euro richiesta senza alcun titolo. Le vittime hanno dovuto sottostare a queste pretese avanzate con la violenza propria dell’intimidazione mafiosa e, dopo aver pagato, sono state nuovamente oggetto di richiesta di altri soldi. La spregiudicatezza degli appartenenti al clan è emersa in modo evidente dalle indagini, che hanno consentito di accertare anche che gli appartenenti avessero la diponibilità di armi. È stato infatti registrato che uno degli indagati, con la complicità di altro indagato, abbia minacciato una persona utilizzando un pistola. Quest’ultima non ha subito più gravi conseguenze sol perché la notte in cui è stato minacciato si trovava in compagnia della propria famiglia, per come emerso dalle parole pronunciate - ed intercettate - dall’indagato.
NESSUNA DENUNCIA - Le indagini hanno consentito di accertare l’esistenza della forza intimidatrice del clan, che ha determinano un clima di omertà al punto tale che nessuna delle vittime ha denunciato i fatti contestati agli indagati con il decreto di fermo. Attualmente gli indagati sono detenuti in carcere, a seguito del fermo di indiziato di delitto e del provvedimento che, all’esito dell’udienza celebratasi ieri mattina 2 ottobre dinnanzi al G.I.P. del Tribunale di Trani (su richiesta della locale Procura, come previsto dalla legge), sono stati ritenuti sussistenti i gravi indizi di colpevolezza, con la conseguente misura della custodia cautelare in carcere per tutti gli indagati. Per i cinque indagati, le cui responsabilità dovranno essere accertate nel corso del successivo giudizio, il procedimento è nella fase delle indagini preliminari e la posizione di tutti gli indagati sarà valutata nel processo nel confronto con la difesa.
Il procuratore Rossi: «Ad Andria c'è clima diffuso di omertà»
«Uno dei problemi della criminalità organizzata è che, a volte, si innesta nel territorio per la disattenzione di forze dell’ordine, magistratura e opinione pubblica. E una volta che mette le radici diventa difficile estirparla. Nella provincia di Barletta-Andria-Trani stiamo mettendo un faro su fenomeni criminali gravissimi di fronte ai quali abbiamo dato una risposta rapida e forte. Ma è mancata la collaborazione dei cittadini». A dirlo, in merito ai cinque arresti di esponenti del clan Pesce di Andria, è il procuratore della Repubblica di Bari Roberto Rossi.
Per il coordinatore della Dda di Bari, Francesco Giannella, "ad Andria c'è una recrudescenza di fenomeni delittuosi importanti, soprattutto di tipo estorsivo. La forza di intimidazione di queste persone è talmente invasiva da convincere anche un membro della polizia locale a non denunciare». «Nei territori in cui la forza di intimidazione mafiosa è così importante - ha aggiunto - l’omertà è quasi fisiologica, normalizzata e accettata. È umanamente comprensibile per i singoli, ma lo è molto meno se pensiamo che non c'è stata alcuna reazione collettiva della società civile e delle associazioni che operano sul territorio». "Ad Andria c'è un clima diffuso di terrore - ha sottolineato la pm della Dda Bruna Manganelli - e soggezione che porta all’omertà, in cui affidarsi allo Stato non diventa nemmeno un’opzione. Abbiamo intercettato vittime che dicevano agli indagati 'Non vi preoccupate, non denunceremò. C'è invece bisogno di fidarsi della magistratura e delle forze dell’ordine».