Marina Dimattia
I rifiuti organici potrebbero abbandonare la scena dei problemi, trovando spazio tra le fonti di energia pulita. Se solo si riuscissero a scacciare i «fantasmi» dell’indifferenza. «Finora abbiamo assistito abbondantemente alla fuga dei cervelli. Credo, purtroppo, che siamo vicini anche alla fuga dell’ingegno». È pacata nei toni, ma furente nella sostanza la professoressa Concetta Giasi, ingegnere civile e docente di Geoingegneria ambientale presso il Politecnico. Dentro, un combinato di estro e genialità che le ha permesso di brevettare, insieme al ricercatore Nicola Pastore, un impianto pilota volto alla riduzione del volume dei fanghi organici degli impianti di depurazione.
Con l’encomiabile risultato che si potrebbe relegare in soffitta il tormento dello smaltimento di questo materiale che «a seguito della sentenza della Corte di Cassazione del 2017 non può più essere sversato sui terreni come si è sempre fatto, vista la concentrazione al suo interno di metalli pesanti» precisa l’ingegnere. Fuori, un animo inquieto per via del concreto timore che se «non riusciamo a trovare il modo di usare in Italia la scoperta, tra qualche anno la pagheremo il doppio, dovendo concludere affari con una multinazionale estera che comprerà l’idea». Non gira intorno al problema la Giasi, che si aspettava sviluppi più concreti essendo accorsa, insieme al collega Pastore, al capezzale di una terra ferita, provando a sottrarla da gran parte delle sostanze tossiche che le si riversano addosso. «Se mangio qualcosa, del brodo per esempio, sicuramente prima o poi lo avrò digerito.
Ecco, l’impianto trasforma i fanghi in brodo - spiega la professoressa, provando a rendere l’idea anche ai non addetti ai lavori - Dei batteri selezionati mangiano questo brodo in soli 2 giorni, contro i 20 giorni attuali necessari per la digestione anaerobica dei fanghi non sottoposti ad alcun trattamento preliminare, con totale semplicità poiché fa parte della loro natura prendere la materia organica e trasformarla in metano puro, da usare per esempio, in qualsiasi automobile». Un «colpo» svelto con cui si riduce in termini di peso, il 95percento del fango che esce dall’impianto; tanto che da una tonnellata di fanghiglia vengono fuori 0.05 tonnellate non più tossiche e inodore, oltre al metano puro e all’acqua.
«All’interno dello scenario nazionale e internazionale, la tecnologia di trattamento sperimentata appare estremamente competitiva da molti punti di vista- aggiunge la Giasi- Intanto economico poichè i costi di trattamento sono inferiori ad 1/10 di quelli attuali; ambientale: produce notevoli riduzioni degli impatti a livello locale e globale poiché non comporta emissioni in atmosfera, quindi mitiga gli effetti sui cambiamenti climatici e il prodotto residuo non è pericoloso; energetico perchè c’è una produzione di metano eccedente le necessità dell’impianto stesso con ritorni sociali ed economici; accettabilità urbanistica e territoriale, visto che non ha problemi di collocazione per la esiguità degli spazi occupati e per l’assenza di cattivi odori e di emissioni di alcun genere». Un portento di benefici, ma un fermo immagine che immortala un’invenzione ancora priva di concretezza.
La sperimentazione conclusa a settembre 2016, con un brevetto italiano alle spalle, l’ottenimento della proprietà intellettuale internazionale nel novembre 2017 e poi la registrazione nel dicembre dello stesso anno, al momento non ha trovato ancora il giusto appeal per poter passare dal prototipo al prodotto. «È come essere inciampati in un brillante prezioso che non si sa su quale montatura incassare. Non è una questione economica, non voglio soldi, ma è un peccato non provvedere a immettere l’impianto nel sistema» conclude la Giasi in attesa che, per il bene del territorio, una luce si accenda anche sul suo «brillante di fanghi» togliendolo dall’ombra.