BARI - La strage di Capaci, Andreotti, il primo incontro e «la lezione di Falcone», ma anche la cosiddetta «azione parallela», il lavorio dei nemici di Giovanni Falcone dentro la magistratura che contribuì a consegnarlo ai macellai di Totò Riina. Sono alcune delle tappe fondamentali del percorso che portò il giudice capace di far cadere il velo sui segreti e sui capi di Cosa nostra a lavorare in stretta simbiosi con il ministero di Giustizia, nei primi anni ‘90 guidato proprio da Claudio Martelli. Ci sono questi dettagli, non da poco, e tanto altro nel libro scritto dall’ex Guardasigilli e vicesegretario del Psi, «Vita e persecuzione di Giovanni Falcone» (edizioni La nave di Teseo).
Un lavoro di ricostruzione dolorosa della memoria, a trent'anni dalla strage del 23 maggio ‘92, l’efferato attentato che costò la vita a Falcone, alla moglie e ai cinque uomini della scorta, segnò la vita politica dell’allora ministro e con ogni probabilità anche le sorti di quella che avremmo ricordato come la prima Repubblica.
Concetti ribaditi con vigore dall’ex ministro della Giustizia dall’affollata terrazza del Fortino, con Daniela Mazzucca, già sindaco di Bari e vicepresidente della fondazione Di Vagno, a fare gli onori di casa, in occasione della seconda edizione di Lungomare di libri - organizzata da Comune di Bari e Regione Puglia, nell’ambito della programmazione dei Presìdi del Libro in collaborazione con il Salone Internazionale del Libro di Torino -.
«Volevo fare la guerra alla mafia e per farla scelsi il più bravo di tutti», racconta Martelli, in relazione alla decisione di coinvolgere Falcone nell’operazione che avrebbe portato all’adozione dei provvedimenti «che rompono del tutto la pax Stato-mafia, come la superprocura, la Dia e in seguito, dopo la morte di Falcone, il 41 bis».
La mancata nomina di Falcone alla guida del pool antimafia dopo l’uccisione di Chinnici, come rimarca il direttore della Gazzetta, Oscar Iarussi, secondo Martelli rappresenta «l’inizio della persecuzione e dell’isolamento» dello stesso giudice, che ne hanno poi determinato la morte. Il tutto si traduce nell’”azione parallela” ovvero «la saldatura tra Cosa Nostra e quei pezzi di Stato desiderosi di distruggere Falcone professionalmente e politicamente». «Azione parallela» connotata dall’ex Guardasigilli in quello che definisce «”il partito siciliano”, composto da una parte della Dc, da poteri economici, politici, amministrativi, da una parte sia dell'avvocatura sia della magistratura siciliana».
Nelle istituzioni finite sotto accusa anche «pezzi della magistratura mossi dalla volontà di mantenere la convivenza pacifica tra Stato e mafia che Falcone aveva rotto da magistrato, continuando a perseguirla insieme a me con i provvedimenti speciali».
Argomentazione sottolineata dal sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto. «Martelli azzarda un’ipotesi in cui rivela la convinzione che al dil à del rapporto con la mafia, c’era un rapporto interno con la magistratura, inquietante, che in qualche modo ha dato una sorta di legislazione morale alla mafia ad eliminarlo. È come se lo stesso Stato lo avesse ripudiato, dando una sorta di via libera alle organizzazioni mafiose per avere la giustificazione etica per procedere alla persecuzione di Giovanni Falcone», afferma il viceministro. E aggiunge. «Falcone ha inventato un metodo unitario per combattere la mafia, introducendo la necessità di colpire non solo i patrimoni mafiosi ma di farlo unitariamente. Il libro in fin dei conti ci restituisce il senso dello Stato con le persone che hanno pagato con la vita come Falcone e Borsellino», conclude, non senza ribadire la convinzione che «la cultura sia il più forte antidoto dell’antimafia».
Concetti sposati e ribaditi dal sindaco Antonio Decaro. «L’omicidio di Falcone ha rappresentato lo spartiacque nella lotta alla mafia nel Paese, cosi come a Bari le vittime innocenti di mafia, Michele Fazio, Gaetano Marchitelli e Giuseppe Mizzi, lo sono stati ad inizio anni Duemila nella lotta alla criminalità», conclude il primo cittadino.