Criminalità, 69 rapine nel Barese in due anni: quattro condanne
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Luca Natile
20 Gennaio 2021
BARI - «Non doveva finire così. Mio padre è morto qualche giorno fa in una casa di cura per persone con patologie acute che hanno bisogno di essere sottoposte a riabilitazione. Era ridotto allo stato vegetativo, nell’ultimo periodo si alimentava con la Peg, l’alimentazione artificiale. Quello che più mi addolora è che nonostante le istanze presentate attraverso il nostro legale, lui ha dovuto trascorrere gli ultimi mesi di vita da “detenuto”. Lo chiamavano boss ma per me era solo mio padre, assomigliava ad Al Pacino».
Paolo, 46 anni, non riesce a darsi pace. È il figlio di Francesco Abbrescia, 66 anni, un tempo legato agli ambienti della camorra barese, un pezzo da novanta organico al gruppo malavitoso dei Fiore. Stava scontando una condanna a 12 anni carcere emessa del Tribunale di Brindisi per reati di droga (inchiesta «Coke»). «Ha trascorso quasi metà della sua esistenza in carcere mio padre - spiega Paolo alla «Gazzetta» - ma non è mai stato un “padrino”. Era invecchiato, era un uomo solo e malato, due semi paresi facciali quasi gli impedivano di parlare. I colloqui in carcere o quelli in videoconferenza erano diventati un supplizio. Le patologie che lo hanno portato alla morte non solo gli avevano tolto la salute e la possibilità di vivere in maniera autosufficiente ma anche la lucidità, la capacità di ragionare. Non era più in grado di provvedere a se stesso. I Tra poco più di un anno, considerati gli sconti di pena e la buona condotta, avrebbe finito di pagare il suo conto alla Giustizia e sarebbe tornato un uomo libero ma lui sapeva che non sarebbe riuscito a resistere tanto e per questa ragione mi aveva chiesto di riportarlo a casa. Non voleva morire da carcerato. Non era più in grado di fare del male a nessuno e continuo a sostenere che il suo stato di salute, non fosse compatibile con il regime carcerario. Avrebbe potuto trascorrere un po’ di tempo con la sua famiglia prima di morire. È giusto che chi ha sbagliato paghi le sue colpe ma quando oramai non si è più neppure in grado di riconoscere un figlio, mi chiedo che tipo di giustizia è quella che ti lascia in uno stato di costrizione. Ho presentato istanza per poter riavere i suoi effetti personali, non me li hanno restituiti».
Paolo è rimasto da solo a prendermi cura del genitore. Ha chiesto due volte durante il 2020, a causa del rapido aggravamento delle condizioni di salute, che gli venissero concessi gli arresti domiciliari.
«Ero il suo unico sostengo. L’Alzheimer gli stava portando via i ricordi e la capacità di ragionare, un intervento alla colonna vertebrale lo aveva costretto su una sedia a rotelle. Nessuna delle istanze per l’attenuazione della misura restrittiva - spiega Abbrescia - è stata accolta. Il 16 ottobre, l’ultima volta che sono andato in carcere per il colloquio mi hanno detto che non era possibile vederlo e parlargli perché non si sentiva bene. Il giorno dopo mi hanno telefonata dicendomi che le sue condizioni si erano aggravate e che era stato ricoverato in coma al Policlinico. È stato un colpo al cuore».
«Lo hanno ricoverato in Rianimazione, mettendogli un tubicino nella gola per farlo respirare. Ad inizio dicembre - prosegue nel racconto - è uscito dal coma, sono riuscito a parlargli ma lui non mi ha riconosciuto. Gli ho detto di non preoccuparsi, che lo avrei riportato a casa e che ci avrei pensato io a lui. Poi lo hanno trasferito all’ospedale De Bellis di Castellana Grotte dove è stato operato per calcoli alla colecisti. Da lì è stato trasferito alla casa di cura di Noci per sottoporlo ad un trattamento riabilitativo che purtroppo non è riuscito. Mi hanno telefonato dicendomi che non mangiava più e che non rimaneva che il ricovero in una struttura a Bitonto specializzato in cure palliative e accompagnamento alla morte. Mio padre non ce l’ha fatta. Non è riuscito ad arrivare a Bitonto. Mi hanno telefonato nel cuore della notte per dirmi che era morto.».
Dopo aver saputo del coma lo scorso ottobre, Paolo Abbrescia si è presentato nell’ufficio denunce della Questura ed ha depositato una denuncia/querela di tre pagine più 10 pagine di allegato in cui ricostruisce la «storia clinica» del genitore, la tempistica e le ragioni delle istanze con le quali, nonostante non il genitore non avesse raggiunto complessivamente la pena per la concessione del beneficio della detenzione domiciliare, ne chiedeva comunque il riconoscimento in quanto il suo stato di salute avrebbe potuto essere incompatibile «con il regime inframurario in carcere».
«Dopo tanti anni che cercavo di portarlo a casa, per le sue malattie inguaribili alla fine lui non ce l’ha fatta Ha sofferto molto. Ritengo ingiusto che sia rimasto in carcere nonostante il suo stato. Le ultime richieste per i domiciliari le abbiamo presentate quando abbiamo capito che la sua salute stava precipitando ossia il 5 maggio e poi il 19 settembre del 2020. Sono state entrambe rigettate . Non ce l’ho con i giudici, e neppure con i medici ma a questo punto non mi resta che ipotizzare che qualche cosa non abbia funzionato nello scambio di informazioni sul suo stato di salute. Voglio sapere se gli è stata fornita in carcere tutta l’assistenza possibile. Se lo avessero lasciato uscire per tempo forse le cose sarebbero andate diversamente. Dopo la mia denuncia sono stato sentito dagli investigatori, è stato aperto un fascicolo. Voglio andare avanti. C’è però un ostacolo. Ho parlato con 8 avvocati e nessuno si è detto disposto a darmi assistenza legale».
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