Fase 2, #rimettiamocinmovimento. La quarantena nel ghetto è finita. Il Dpcm 26 aprile 2020 ha allargato, a partire dal 4 maggio, le maglie del distanziamento sociale che da lunedì diventeranno ancora più ampie. Nell’intreccio tollerante delle nuove prescrizioni, si sta infilando quella specie di «corte dei miracoli» composta da emarginati e il racket oscuro che li sfrutta.
Sono lavavetri, accattoni, mendicanti, piccoli venditori ambulanti di calzini, parcheggiatori abusivi, sciuscià. Sono soprattutto africani, mediorientali, arabi ma c’è anche qualche sventurato dell’Est. Vengono dal Niger, dal Sudan, dal Senegal, dalla Nigeria, dalla Costa d’Avorio, dalla Romania, dalla Bulgaria, dalla Siria, dall’Iran, dall’Iraq.
I più «fortunati» finiscono a lavorare in nero nei cantieri o nelle cucine di un fast food, vengono inghiottiti dalla cerchia dei «vu’cumprà» o entrano nel giro del piccolo spaccio. Gli altri chiedono la carità davanti agli ingressi dei ristoranti, alle porte automatiche dei supermercati, nei parcheggi dei centri commerciali, sotto le pensiline delle stazioni ferroviarie, agli angoli delle strade. Girano come trottole, con le mani tese, elemosinando pietà e spiccioli. Si offrono per portare le borse della spesa, il carrello pieno di buste.
Dall’11 marzo, quando è calata la cortina sanitaria del lockdown si sono chiusi nei ghetti: le case del Libertà dove vivono in dieci in un tugurio di pochi metri quadrati, nei sottani di Madonnella, in un vecchio caseggiato tra San Giorgio e Torre a Mare.
Con i guanti in lattice e le mascherine da 1 euro e 50, ora che il periodo di quarantena è finito e le file davanti ai supermercati si accorciano sono tornati nella quotidianità: cappellino da baseball o un bicchiere di plastica stretto in una mano tesa, il segno dell’elemosina fuori da un negozio.
C’è chi infastidito spinge il carrello della spesa oltre quella richiesta di aiuto, spaventato da quel contatto troppo ravvicinato. Chi invece alla domanda «La posso aiutare, spingo io il cestello» annuisce perché la pandemia forse ci ha reso meno indifferenti e allora lascia cadere una moneta da 1 euro nell’incavo senza fondo di quel berrettino solitamente sporco e bucato.
Come succede a Mahid, nigeriano, uno sguardo accigliato dietro la sua mascherina chirurgica. «Se trovassi un lavoro il cappello lo butterei via senza pensarci un attimo». Jeans sdruciti, una t-shirt bianca a maniche corte, un berretto di lana fredda calato sulla fronte. Non ha grande voglia di fare conversazione. Staziona davanti all’ingresso di un supermercato uguale a tanti altri. «Quando troverò un lavoro, non chiederò più l’elemosina alla gente che fa la spesa».
Una signora gli offre 50 centesimo e va via. Lui accenna ad aiutarla e lei gli fa segno che non ha importanza. Gli chiedi di raccontare la sua storia e lui dice di essere nigeriano come molti dei ragazzi che «lavorano davanti ai negozi».
«Non teniamo tutti i soldi per noi - spiega -. Non lo fa quasi nessuno. Dobbiamo aiutare i fratelli. Tutti hanno fame». E i fratelli che lavorano nel giro non sono solo nigeriani.
Mahid non lavora da solo, lui sta fermo davanti all’uscita del market, Hassana invece presidia il parcheggio. Si offre di aiutare i clienti a mettere le buste in auto e spera che gli lascino il carrello con la monetina.
«Non trovo lavoro – racconta Hassana – come Mahid devo fare tutto questo per mangiare. Non sono clandestino, aspetto il permesso di soggiorno. Prima o poi me lo danno. Ho visto la gente morire. Vivo con altri fratelli al Libertà. Cerco sempre qualche cosa di meglio. Ho anche studiato nel mio paese».
Storie tutte uguali, copioni mandati a memoria e su tutto il business delle elemosine, che ha sollecitato gli appetiti delle mafie e che ora, a lockdown finito, il racket sta tornando a fare la cresta sui magri guadagni di un esercito di invisibili. Nulla è frutto del caso: turni, postazioni e orari vengono nuovamente assegnati secondo un criterio già collaudato. Ognuno ha, se non una zona fissa, un quartiere in cui può «lavorare» con la precisione di un dipendente, rispettando giorni e orari determinati. Si inizia alle 7.30 del mattino, si finisce la sera. Il cambio arriva alle 13. Abolite le autocertificazioni si torna a viaggiare in treno o sugli autobus cappellino da baseball e zainetto in spalla. Chi non può fare la questua in città si sposta in provincia. Ognuno ha la sua postazioni che durante i giorni della settimana cambia secondo ritmi e turnazioni prestabile. Il 50-60% del guadagno è destinato al racket.
Mettersi in proprio, sottrarsi a una qualche forma di controllo o di imposizione è quasi impossibile. Come accade per le prostitute a volte anche chi chiede la carità è costretto a pagare per avere la sua piazzola davanti al supermercato migliore, al bar più frequentato.
La «cupola» che muove le fila di questa rete di questuanti distribuendoli tra capoluogo e provincia stabilisce detta le regole e fissa le modalità a volte offre in dotazione anche il telefono cellulare, con cui rimanere in contatto con l'organizzazione e ricevere istruzioni. È una presenza che in molte zone, attraverso la violenza e l'intimidazione o più semplicemente l’occupazione massiccia e militare del territorio, è riuscita ad allontanare dal mercato la criminalità etnica Rom, gestita da gruppi provenienti dalla Romania.