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Bari, accusato di aver violentato detenuto: «Sono mafioso ma in carcere nessun abuso»

 
Giovanni Longo

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Giovanni Longo

Bari, violenta detenuto: «Sono mafioso ma in carcere nessun abuso»

L’uomo si è difeso così nel processo. «Nel mio codice sono impensabili i reati di natura sessuali»

Lunedì 03 Giugno 2019, 09:14

17:56

BARI - «Sono un grosso esponente della mafia, impossibile che possa avere tentato di violentare un detenuto in carcere». Francesco Scaglione, di 72 anni, palermitano, si è difeso più o meno così da un’accusa da lui vissuta come davvero infamante: tentata violenza sessuale. Vantando, si fa per dire, un codice d’onore che suona grosso modo: «i mafiosi non commettono reati di questo tipo». Per questo, chissà deve avere tirato un doppio sospiro di sollievo quando nei giorni scorsi è stato assolto dall’accusa di tentata violenza sessuale ai danni di un altro detenuto, a sua volta, particolare non di poco conto in questa storia, dietro le sbarre per reati di natura sessuale.

La vicenda affonda le radici nel lontano marzo 2012. Stando alla ricostruzione della Procura, quando Scaglione era detenuto nel carcere di Bari dove stava scontando una pena definitiva per associazione di stampo mafioso, avrebbe seguito in bagno un altro detenuto, lo avrebbe afferrato per il collo, «spingendogli con forza la testa», con l’obiettivo di costringere la vittima a subire un atto sessuale. Un tentativo non riuscito «per cause indipendenti dalla sua volontà», contestava la pubblica accusa. La vittima, barese di 51 anni, si era costituita parte civile, lamentando i danni subito nello spirito e nel fisico. Lesioni al collo e al torace erano l’ultimo dei pensieri. L’uomo, infatti, aveva subito il distacco della retina che lo avrebbe poi costretto a più interventi chirurgici. Offeso anche il decoro, secondo la Procura. «Drogato di m...», «infame», «ti faccio sciogliere nell’acido». Queste le frasi che Scaglione avrebbe proferito, minacciando la vittima, dicendogli anche, appunto, «io sono un grosso esponente della mafia». Frase che per l’accusa rafforzava l’ipotesi investigativa, mentre per la difesa, contribuiva, insieme ad altri elementi, a scagionare Scaglione.

L’uomo, assistito dall’avvocato Daniela Castelluzzo, interrogato sulla vicenda durante le indagini, aveva respinto categoricamente ogni addebito. Condannato in primo grado a due anni e sette mesi per tentata violenza sessuale, la Corte d’Appello di Bari ha ribaltato il verdetto, assolvendolo con la formula più ampia («perché il fatto non sussiste»).

Anzitutto il medico legale che aveva visitato la vittima aveva riscontrato sì ecchimosi compatibili con un’aggressione (senza però potere stabilire a quando risalissero) ma non certo con un tentativo di violenza sessuale. La versione fornita dalla persona offesa evidentemente non è stata ritenuta credibile. Inoltre, ricordiamo, quest’ultimo era detenuto per reati sessuali. In base al «codice» in vigore dietro le sbarre, chi è accusato di reati di questo tipo (nel caso di specie, presunti abusi ai danni del figlio della moglie) indipendentemente dalla innocenza colpevolezza, non è ben visto dietro le sbarre. Non è un caso che chi sta in carcere per queste accuse è confinato in un’ala ben precisa del penitenziario, visto l’elevato rischio di aggressioni. Il contatto tra i due avvenne solo perché la vittima era il piantone nel centro clinico dove era ricoverato Scaglione.

«Lo Scaglione, uomo di mafia, che si ritiene di onore, come regola mafiosa - ha sostenuto la difesa nell’atto di appello - seppur non stimabile e dignitosa, non ha gradito la presenza» della vittima «per lui disonorante». Insomma, i mafiosi non sopportano chi potrebbe avere commesso reati sessuali. Impossibile, è la tesi difensiva, che possa avere commesso reati analoghi. Insomma, mafioso sì, violentatore dietro le sbarre no.

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