di GIUSEPPE DE TOMASO
Secondo un suo ex collaboratore trasformatosi in feroce accusatore, Donald Trump era il primo a escludere di poter battere Hillary Clinton nella corsa alla Casa Bianca. Invece, in barba alle sue stesse previsioni, non solo ha vinto, ma ha sùbito preso le misure alla prestigiosa scrivania scatenando un putiferio al giorno. Ora, se persino un signore provvisto di un’autostima oceanica, non credeva nei propri mezzi, significa che lui per primo non si riteneva all’altezza dell’incarico cui ambiva. In effetti, Trump somiglia al classico elefante capitato in una cristalleria: fuori posto, e con più di un pericolo dietro l’angolo. Un po’ come se allo scapigliato Vittorio Sgarbi fosse affidata la conduzione del compassato Festival di Sanremo o se a un giovane neopatentato fosse regalata una Ferrari. In quest’ultimo caso, diventerebbero obbligatori il segno della croce e le cinture allacciate (per l’occasionale passeggero).
Non è chiaro se il Magnate oggi alla guida dell’America voglia trasformare in punto di forza la propria inadeguatezza o se voglia giocare a fare il naif solo per vedere l’effetto che fa. In ogni caso, Trump incarna la presidenza più imprevedibile della storia americana, quella più candidata a patatrac e continui colpi di scena. Del resto, il populismo ha poco a che fare con la ragione. È tutto istinto, demagogia, con il contorno dei calcoli elettorali.
Ma siccome la Storia non è avara di sorprese, la presidenza Trump ha due strade davanti a sé: o precipita ingloriosamente sull’onda delle rivelazioni a proposito delle oscure trame che avrebbero caratterizzato la campagna elettorale Usa; o ribalta a proprio favore gli attuali insoddisfacenti dati dell’ audience sulla Casa Bianca, contando sulla crescita economica, che, si sa, genera fiducia e occupazione.
Non sappiamo se l’accelerazione data da Trump al taglio delle tasse (soprattutto per le imprese) sia frutto delle sue profonde convinzioni - l’attuale presidente cita spesso il predecessore Ronald Reagan (1911-2004), ma è lontano anni luce dai canoni ideologici del reaganismo - o se invece la rasoiata fiscale trumpiana sia una mossa per rimediare a un indice di gradimento in preoccupante discesa. Fatto è che la Borsa di New York fa festa ogni giorno, che anche gli altri mercati azionari si uniscono ai brindisi, e che persino i giornali più riottosi verso il presidente Usa titolano inneggiando all’effetto Trump. Della serie: l’uomo sarà quello che è, sprovvisto dei fondamentali e inadeguato al compito, ma stavolta potrebbe averla imboccata giusta. Del resto la Storia politica non è nuova a percorsi originali, con dilettanti che ottengono, per fortuna e spesso a loro insaputa, risultati più confortanti di quelli ottenuti da riconosciuti professionisti della materia.
Va detto che è assai facile aggredire il fisco guidando la prima potenza economica del pianeta, ma va pure detto che l’avvio di una simile sfida non è mai così scontato. È un azzardo. Specie se non si indicano i tagli di spesa pubblica che, almeno nel primo periodo, dovrebbero compensare le minori entrate dello Stato. Certo, le maggiori entrate fiscali - si potrebbe replicare - verrebbero assicurate, dopo il taglio delle aliquote, da una (più) generosa crescita economica. Ma nessuno potrebbe metterci la mano sul fuoco, si resterebbe sempre nel recinto delle probabilità.
Comunque Trump, come si dice, ha messo la faccia sulla sforbiciata fiscale e si è messo alla finestra. Se il trend dell’economia gli darà soddisfazioni, gli americani gli perdoneranno il Russiagate e uno stile più dozzinale di quello di un «Er più» capitolino sbarcato a Washington. In caso contrario, invece, Trump potrebbe preparare le valigie forse addirittura in anticipo rispetto alla scadenza naturale del mandato presidenziale. È l’economia il giudice supremo di ogni presidenza, non solo negli Stati Uniti.
Ma l’Europa e l’Italia che fanno di fronte alla nuova sfida che arriva da Oltreoceano? L’Europa è animata da mille risentimenti interni, ed è ancora lontana dal traguardo dei sentimenti comuni. Quanto all’Italia, beh, a meno di due mesi dal voto per il Parlamento, di tutto discute tranne che dell’economia e dei problemi legati alla ripresa (è ancora una ripresina).
Non se ne discute o, meglio quando se ne discute, episodicamente o a rate, lo si fa con una tonalità e un linguaggio tipici di una campagna elettorale. Slogan acchiappavoti. Sparate improvvise. Promesse ardite. E il conto economico? Un optional. Signori, chi offre di più? Se ne discute con il freno a mano perché il debito italiano è quello che è, né accenna a calare. Anzi, le cosiddette clausole di salvaguardia - impegni del governo nei confronti dell’Europa rinviati nel tempo - introdotte in questi anni per anestetizzare certe scelte impopolari e non perdere il consenso di corporazioni e associazioni varie, sono così ingenti (decine e decine di miliardi di euro), che dopo le elezioni, sull’onda del pressing europeo, chiunque andrà al governo si troverà nella condizione di introdurre nuovi balzelli o di appesantire quelli esistenti: il debito pubblico in cinque anni è cresciuto di 200 miliardi, di cui 71 miliardi negli ultimi 12 mesi. Del resto, auspicare che alla vigilia dello scioglimento delle Camere, la spesa pubblica diminuisca, che si approvino manovre rigorose, equivale a credere all’esistenza della Befana e di Babbo Natale. Ma ciò che più sorprende, o sconcerta, è l’indifferenza generale verso queste problematiche e, soprattutto, verso le riforme economiche.
L’indifferentismo e il relativismo culturale (!) sul rispetto di impegni e scadenze sono all’origine della filosofia del rinvio che accomuna quasi tutti i gruppi politici italiani. Ma di rinvio in rinvio qualsiasi programma economico (ammesso che ve ne siano di razionali e dettagliati in campagna elettorale) verrebbe strangolato già nella culla, perché dall’Europa ci ricorderebbero l’obbligo di onorare i patti. Il che si trasformerebbe in alibi per evitare (rinviare) i cosiddetti compiti a casa e continuare a dissipare risorse come si è fatto finora. Quello che conta è il posto in Camera.
La risposta a Trump? A babbo morto.
Giuseppe De Tomaso
detomaso@gazzettamezzogiorno.it















