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Quel sindaco da solo davanti a San Nicola

 
Michele Mirabella

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Michele Mirabella

Quel sindaco da solo davanti a San Nicola

La Piazza non era vuota perché c’eri tu e c’era la tua solitudine ad abitare piazza e basilica, perché tu, proprio nella severa dignità della solitudine, hai rappresentato tutti noi, «sei stato» il popolo

Domenica 10 Maggio 2020, 18:30

Il Sindaco di Bari, Antonio Decaro, è andato nella Basilica di San Nicola a pregare e ad aprire le celebrazioni del Santo che non potranno, quest’anno, svolgersi con il popolo dei fedeli: «Con questa fascia tricolore porto insieme a me tutti voi, porto il nostro abbraccio a San Nicola». Ha detto. E il sindaco è andato da solo.

Rispetta la legge, il Sindaco. Esemplare. La frase che segue, la apprendo dai giornali, avverte: «In questa giornata e in quelle a venire questa piazza sarebbe stata piena di gente con le luminarie, il suono dei timpanisti, la musica della banda e le voci dei fedeli. Oggi, invece, la piazza è vuota».

No, Signor Sindaco. La Piazza non era vuota perché c’eri tu e c’era la tua solitudine ad abitare piazza e basilica, perché tu, proprio nella severa dignità della solitudine, hai rappresentato tutti noi, «sei stato» il popolo. E, ti dirò, non solo i Baresi. Del resto, San Nicola ama i Forestieri, come dice il confidenziale adagio ribadito dai miei concittadini.

Non è, San Nicola, del parere di quell’eremita che, giocando con le parole si lasciò andare a una sconfidata esclamazione: «Beata solitudo, sola beatitudo». La frase è stata erroneamente attribuita a Seneca o a San Bernardo di Chiaravalle, ma in realtà è documentata nel 1566, in una raccolta di poesie del sacerdote olandese Cornelis Musius. Non proprio un allegrone! È oggi utile nell’armamentario degli scettici e/o degli scapoli irriducibili.

Le due proposizioni son legate dall’anagramma, ma facilmente si possono tradurre con la mesta constatazione «Beata solitudine sola beatitudine». Mesta? Ma, forse, l’anacoreta che scrisse il motto s’era spazientito di qualche banda di avvinazzati e mascalzoni urbani: ve n’è anche in questo tempo ingordo di piaceri e schiamazzi, come insegnano recenti cronache milanesi. Ma alcuni fraticelli resero il gioco di parole constatazione serafica e il resto è epigrafia spicciola conventuale. Beata solitudine?

Sì, se è usata come si deve.

Il 5 aprile, Domenica delle Palme scrivevo su queste pagine più o meno così:

«Ho ancora negli occhi, nella mente, nel repertorio mite della memoria di questi giorni crudeli che stiamo vivendo, una scena rappresentata da un uomo come noi investito da una sventura che non ci riesce di pensare Dio possa sopportare. Quest’uomo è il Papa, il Francesco che la Provvidenza ha voluto farci incontrare sulla strada che è comandata alle nostre generazioni, Via Crucis da percorrere in tutte le sue stazioni.

E la scena è quella impartita come un sacramento teatrale in cui la particola è l’immagine, l’eucarestia di condivisione nel millennio della comunicazione globale: e questa è il vuoto di una piazza immane. Così fu voluta dalla committenza religiosa: che fosse in grado di abbracciare simbolicamente il mondo. Tutta la nuova ecumene universale si riunisce intorno al Pastore nella virtualità immane di quel vuoto massmediologico che tutta l’umanità rappresenta: cristiani e non cristiani. Figli di Dio. (Ne son passati secoli dalla carta risicata che narrava il mondo piccolo di Anassimandro di Mileto).

Oggi il mondo grande sta lì, attonito e commosso e si lamenta, all’unisono con le sirene delle auto delle forze dell’ordine e delle ambulanze che cantano a Dio da lontano, al confine della piazza-mondo. E il Pastore nella luce della sua solitudine, pregando per noi, ha letto una pagina dell’eterna buona novella che la modernità afflitta in cui stiamo vivendo aspetta: il Vangelo secondo il Pastore nostro. E secondo l’umanità che soffre, che ha paura».

Ero rimasto attonito dall’immagine frastornante della solitudine di Papa Francesco nella sua preghiera. Giganteggiava l’inermità del padre nel vuoto ineffabile della nostra contemplazione in preghiera. Anche se non avesse profferito litanie, quella figura sarebbe stata un’invocazione. Lancinante. E tale è stata percepita dall’umanità sterminata che si fa popolo quando soffre. Quell’uno inerme e innocente giganteggia nella speranza orante di tutti noi. «Venni senz’armi a testimoniare la dedizione al prossimo» sembra assicurare Francesco. Come un guerriero disarmato per volontà, non per resa, come un testimone di verità a tutti i costi. Inerme.

Come un attore, solo in scena. L’attore che non ha vesti, ma costumi. Perché la scena è il suo mondo e il pubblico guarda il mondo e attraverso le sue parole lo comprende, coglie l’accorata drammaturgia, la bruciante vivacità della comicità che è sberleffo, eleganza del dire, cachinno, lazzo, ma, anche rantolo, amarezza, malinconia risarcita dai singhiozzi che non si sa mai se non siano anche liberatorio riso. Ognuno sta solo…, del resto avverte il poeta.

La solitudine commossa di Sergio Mattarella che sale da solo la scalinata dell’Altare della Patria per sussurrare ai caduti che il Popolo Italiano si riconosce nel loro sacrificio che ha dato libertà e dignità all’Italia, è stata una scena indimenticabile, molto più solenne e austera di tante parate cerimoniali. In altri giorni, anche quelle servono, ma, questi, sono tempi dolorosi e amari.

Oggi il popolo, ad eccezione di alcuni bivaccanti manipoli di avvinazzati, avverte il profondo dramma di cui si sente protagonista e cammina e prega col Papa, sale le scale con il suo Presidente che toglie la mascherina solo per bisbigliare qualche commossa parola di ringraziamento al Milite Ignoto, prega col suo sindaco. Intorno a quelle solitudini si raduna più facilmente e sinceramente. Ed è libero di commuoversi.

Per questo voglio dire Grazie al Sindaco di Bari, Antonio Decaro, per aver detto che «torneremo a riprenderci le nostre tradizioni». Ti suggerisco di inaugurarne tra queste, una nuova: la solitudine del Sindaco. Magnifica, se, dopo di lui, cioè di tutti, arrivano fedeli e pellegrini. Mai gli avvinazzati dell’aperitivo snob.
Michele Mirabella

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