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Ma neanche la lotta al virus tiene congiunti Nord e Sud

 
Michele Mirabella

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Michele Mirabella

Ma neanche la lotta al virus tiene congiunti Nord e  Sud

Intellettuali e scrittori non si sono risparmiati nel tentativo di incoraggiare negli Italiani la coscienza responsabile di essere un popolo e una nazione, non una poltiglia di localismi

Domenica 03 Maggio 2020, 16:45

Leggo sulla Gazzetta del 1° maggio, un bell’articolo di Lino Patruno dedicato a mettere in chiaro, in questi giorni di tensione per l’avvio della seconda fase della lotta all’epidemia, alcuni aspetti e problemi della vecchia polemica sul sud Italia e sulla sua arretratezza sociale ed economica. La questione ispida che ha imperversato, direi, da un minuto dopo l’incontro fatidico di Teano tra Garibaldi e quel re savoiardo che non vedeva l’ora di appropriarsi, in nome dell’unità italiana, del grande regno del sud. Fu chiamata «la questione meridionale».

Nel verbale della Storia figurano molte polemiche che hanno punteggiato e sorretto la dialettica politica, ma, anche, amareggiato la vicenda nazionale, non priva di rissosità, scontri sociali, antagonismi pretestuosi e invettive amare, indegne della cultura, delle lotte e delle drammatiche ansie che erano germinate nel Risorgimento e ancor prima. Intellettuali e scrittori non si sono risparmiati nel tentativo di incoraggiare negli Italiani la coscienza responsabile di essere un popolo e una nazione, non una poltiglia di localismi, ma poco hanno potuto con chi ha alimentato la convivialità balorda delle osterie, la politicuzza da strapazzo di vicoli e condomini e la rissosità della piazza.

E se Carlo Levi nota e registra l’esausta rassegnazione del Cristo della civiltà che staziona, perplesso, a Eboli, lo fa per incoraggiare, dopo la tragedia del fascismo e della guerra, il popolo italiano a sentire il Sud non come problema e contraddizione della storia liberale, ma come opportunità del cammino della civiltà. Ed è proprio nel Mezzogiorno che un decisivo cammino della storia umana prende l’avvio con l’aurora delle civiltà greco-romana. In quel posto, nel cuore del Mediterraneo, che si chiama Mezzogiorno.

Che bella parola: «Mezzogiorno». Come suona bene, così solare e invitante. Evoca scampanii e luce. Prelevata dalla vecchia meridiana o dalla rosa dei venti, ci ricorda il sole a picco e ombre cortissime. A orecchio la diresti parola lunghissima e non è che di quattro sillabe musicali. Sull’orologio delle devozioni domestiche indica ore mediali di un tempo perduto in cui il giorno cominciava all’alba e si chiudeva al tramonto ed era la giornata della fatica umana. Il mezzogiorno segnava la metà di un orario che non aveva sirene né allarmi o sveglie: era semplicemente scandito dal sole e dalla notte. Pascoli verseggia e acquerella il «meridiano ozio delle aie» o il «santo desco fiorito d’occhi di bambini» cui il suono delle campane di mezzodì chiamava radunando al «rezzo, alla quiete».

La mia generazione, come dicevo, ha familiarizzato con questa parola in un suo versatile sfruttamento geopolitico che stava ad indicare il sud d’Italia. Ricordiamo tutti che nel secondo dopoguerra si parlava di Mezzogiorno in questa accezione non astronomica, ma sociale. Ci fu un «Cassa del Mezzogiorno». O fu una «Cassa per il Mezzogiorno»? Il fatto che non me lo ricordi è grave, non solo, ma, anche, sintomo di un lapsus significativo. Ragioniamo: se fu Cassa «del» Mezzogiorno contenne denaro delle regioni del sud da spendere nel sud. Se fu Cassa «per» il Mezzogiorno contenne denaro italiano da spendere per le regioni meridionali. Ragioniamo e consultiamo: fu «Cassa del Mezzogiorno».

Leggo: «La mano pubblica, dapprima attraverso l’opera riorganizzatrice dell’Iri, poi con l’azione di altri poderosi organismi, come la “Cassa del Mezzogiorno”, interveniva a fiancheggiare e potenziare le iniziative particolari. (...) In particolare, contro un superstite e tenace ostacolo, l’arretratezza del Mezzogiorno si combatteva con una manovra di grossi e sostenuti investimenti che, naturalmente, come tutti gli investimenti in zone sotto-sviluppate, procurava in una prima fase profitti e stimoli addizionali alle zone più industrializzate» (L.Villari, Il capitalismo italiano del Novecento Laterza, 1993).
Allora fu, almeno al principio, «Cassa per il Mezzogiorno»? Lasciamo perdere, decidiamo che sia solo un problema di carta intestata. Ma resta il dubbio che, nella storia unitaria, troppi tra coloro che si sono prodigati ad occuparsi della «questione meridionale» (altra denominazione che meriterebbe un’analisi semantica) abbiano praticato la consumata arte del profitto per cause e interessi loro, speculando sul sud o strumentalizzandolo per scopi che con l’arretratezza nostra c’entravano poco. Con amici di questo tipo il Meridione d’Italia non ha bisogno di nemici.

Oggi Patruno, opportunamente stila un ingente rendiconto dei primati economici, culturali, scientifici ed imprenditoriali dell’intero sud geografico dell’Italia. In molti inalberano la migliore sorte capitata al sud dell’Italia nella sventura della pandemia, un sud che può esibire non un colpo di fortuna inaspettato, ma un risultato che, forse, raccoglie i frutti di una caparbia fatica, dell’ostinazione imprenditoriale e politica (vuoi vedere?), della coscienza civica imposta anche da una cultura del bene comune. Il rendiconto di Patruno è entusiasmante. Gli va dato atto.

Gli eventi della «Fase 2» della lotta al virus maledetto, vedono, a parte la pericolosa fantasia della presidente della Regione Calabria, il Mezzogiorno abbastanza disciplinato e pensoso, le sue genti coscienti e pronte alla disciplina, mentre i dati della spietata casistica e i numeri implacabili della contabilità epidemica vedono il nord dell’Italia assai più vacillante sotto i colpi delle disgrazie statistiche e dell’itinerario patologico. Ed è proprio in quelle amatissime plaghe della nazione che l’insofferenza alla prudenza preventiva parrebbe affermarsi, proprio lì, dove tutto è cominciato. Pazienza, Fratelli d’Italia! (secondo l’esortazione del Mameli).

Ancora uno sforzo collettivo e nazionale e torneremo a praticare il sano e popolare gioco dei campanilismi, magari con una gran gara canoro-gastronomica. Quanto è bella, in questo caso, la diversità nell’unità! Anche, e soprattutto, tra congiunti. E gli Italiani lo sono! Congiunti! Tutti.

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