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Di felpa e di giacca di strada e di palazzo

 
Francesco Giorgino

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Francesco Giorgino

Di felpa e di giacca di strada e di palazzo

I pugliesi presenti al tradizionale raduno leghista

Bagno di folla per il vicepresidente del consiglio. Molti partecipanti anche dal Sud, folta delegazione pugliese

Lunedì 02 Luglio 2018, 17:50

Il destino ha voluto che i primi trenta giorni del governo Conte coincidessero con il raduno della Lega a Pontida, il primo dell’era del sovranista. Quella che ieri è andata in scena (e in onda su tv e social network) nelle valli bergamascche è stata un’edizione che passerà alla storia. Dal 1990 al 2018 è cambiato il mondo. Siamo in un’altra era politica. Allora e ora.
Allora, in quella che i vecchi militanti chiamavano la Woodstock del Carroccio, la prova muscolare da compiere era accreditare in un mercato politico destrutturato dalla fine della prima repubblica una concezione di politica nuova, incentrata sul federalismo. Uno strumento al quale venivano affidate le aspirazioni autonomiste di una parte della popolazione nordista. continua dalla prima

Ora, l’occasione da non perdere per i leghisti è quella di orientare verso il futuro una tradizione politica costruita, passo dopo passo, grazie a un forte e radicato legame con il territorio. Ieri la Lega divideva, preoccupava, incuriosiva come quegli oggetti misteriosi che non sai cosa sono, ma che vuoi maneggiare lo stesso. Oggi la Lega unisce, diventa il traino di un modo di far politica fondato su poche categorie: la sintonia con il popolo, l’identificazione con sogni e bisogni di elettorati interclassisti e intergenerazionali, la semplificazione e l’essenzialità del messaggio e la forza disruptive dell’agire comunicativo, diventato ormai ontologia e non più solo fenomenologia. Ieri Umberto Bossi, oggi Matteo Salvini. Ieri il bossismo, oggi il salvinismo. Ieri il sodalizio con Berlusconi, oggi quello con Di Maio. Ieri una proposta politica territoriale che, dopo le intuizioni del professor Gianfranco Miglio, si affacciava timidamente alla ribalta nazionale con l’intento di tutelare gli interessi del ceto produttivo settentrionale. Oggi un manifesto della politica 2.0, a presidio di un’idea di Paese e di Europa incarnata in modus operandi, a volte spicci ma elettoralmente assai redditizi. Ieri qualcosa a metà tra il folklore e la politica. Oggi la politica diretta e in diretta, senza retorica e senza fronzoli.

Un progetto sfidante, non c’è che dire, che Salvini sta portando avanti praticamente in solitudine, forte di un consenso (secondo alcuni sondaggisti superiore al 30%) che deriva dalla base e che lievita ogni giorno sempre di più. La solitudine dei numeri primi, come nel romanzo di Giordano? Non proprio. Salvini è un numero primo non perché è divisibile solo per stesso o per zero (fuori di metafora, il numero primo è chi è poco propenso ad avere rapporti con altri), ma perché è munito di quel pragmatismo che ti porta ad orientare lo sguardo solo in direzione di chi costituisce la fonte legittimante di un potere arrivato all’improvviso: il popolo. È un coro quasi unanime quello che si legge sui giornali e che si sente in televisione. Salvini baricentro del governo. Salvini superstar. Salvini asso piglia tutto. Salvini in testa agli indici di gradimento dell’esecutivo. Salvini di lotta e di governo. Salvini di giacca e di felpa. Salvini di strada e di palazzo. Salvini verde e blu.

La sua forza è l’autenticità di un messaggio costruito senza troppe mediazioni. Un linguaggio coinvolgente, semanticamente poco elaborato. È scoppiato qualcosa di più di un semplice feeling fra Salvini e il Paese. Non è operazione banale o scontata, allora, scoprire le ragioni di questo improvviso colpo di fulmine. La reiterazione dello slogan «il buon senso al governo», come sostiene Gramellini, e nel contempo l’inseguimento del senso comune, pur producendo una polarizzazione difficile da comporre in tempi rapidi, rappresentano tuttavia la piattaforma sulla quale è stata costruita l’identità della nuova Lega nazionale e la leadership di Salvini. I fattori abilitanti di questa effervescenza comunicativa e politica, espansa oltre ogni ragionevole previsione, sono la capacità di ascolto di aspirazioni e paure dei cittadini e il mix di forme d’interlocuzione sia con l’emisfero emozionale, sia con quello cognitivo di milioni di nostri connazionali (del Nord, del Centro e del Sud).

Cittadini abituati, più di quanto immaginiamo, ad abitare con disinvoltura i territori della dimensione post-ideologica, inseguendo traiettorie orizzontali e disintermediate. Quello di Salvini è uno storytelling che sa connettersi con immaginari collettivi e contemporaneamente individuali. E, tutto sommato, non importa se le soluzioni di sistema potrebbero tardare ad arrivare, perché quel che conta rispetto a questa logica è che ci sia qualcuno che dica, con il linguaggio più diretto e chiaro possibile, quello che vuoi sentirti dire per essere rassicurato ed incoraggiato. Dunque, Salvini è lo storyteller di un nuovo sentiment del Paese, ricostruibile attraverso i suoi numerosi incontri one to one, i bagni di folla a qualsiasi ora del giorno e della notte, le interviste, la capacità di misurazione di due categorie centrali nel nuovo marketing: la «relazione»con gli utenti e il loro «engagement».

Le centomila persone arrivate ieri a Pontida, a bordo di pullman, treni e voli charter provenienti anche dalla Sicilia, dalla Puglia, dalla Campania e da altre parti d’Italia, in mezzo a quel prato, fra bandiere e salamelle, hanno cercato qualcosa in più del leader del centrodestra. Con la loro presenza attiva hanno chiesto fatti, puntando a scelte di prospettiva. Spetta a Salvini saper sfruttare al meglio questo magic moment, senza montarsi la testa, anzi mantenendo con coerenza gli impegni assunti e sfuggendo alla sindrome da autosufficienza, che in politica ha sempre fatto brutti scherzi. Spetta a lui modificare, almeno in alcune circostanze, l’intonazione del suo discorso pubblico che, come diceva George Bernard Show, quando è adeguata, ti consente di dire tutto. Spetta a lui tenere in equilibrio una maggioranza di governo che deve saper trovare un punto di sintesi fra le esigenze del Carroccio e quelle dell’ala governista dei pentastellati per non creare, anche indirettamente, difficoltà all’altro contraente Il patto di governo, ovvero Luigi Di Maio. Il riferimento al decreto dignità (non) è puramente casuale.

Se la politica sovranista ha l’ambizione di colmare i vuoti lasciati da partiti moderati come Forza Italia (ancora stordita dopo la sconfitta del 4 marzo ed incapace di rinnovare la propria classe dirigente a livello nazionale e regionale) e il Pd (interessato solo alla leadership e non anche ad un vero rilancio programmatico), allora deve prestare più attenzione al linguaggio. Siamo nell’era delle incomprensioni e delle sopraffazioni anche verbali. Soprattutto, siamo nell’era dei cambiamenti continui e repentini. La vera sfida non è tanto conquistare il consenso, quanto mantenerlo stabile nel tempo. Dunque, meglio cinquanta sfumature di blu che cinquanta sfumature di verde. Sempre che non sia un’illusione ottica.


Francesco Giorgino  

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