«La proprietà è un furto», ammoniva a metà del XIX secolo Pierre-Joseph Proudhon (Che cos’è la proprietà?, 1840), padre del pensiero anarchico moderno e tra i protagonisti della Seconda Repubblica Francese grazie alla sua veemente scrittura giornalistica. La lapidaria affermazione, poi ripresa e resa celebre da Karl Marx (1818-1883), va contestualizzata. Secondo Proudhon, difatti, proprietario” era sinonimo di “padrone” e i suoi strali, dunque, erano rivolti ai latifondisti e ai capitalisti che sfruttavano i lavoratori, riducendoli in uno stato di sudditanza che ne mortificava – prima ancora della dimensione economica – l’individualità, rendendo possibile il controllo di uomini su altri uomini.
Proudhon in fondo era un “battitore libero” nemico di ogni dogma e di ogni statalismo – «per l’amore del cielo, quando avremo demolito tutti i dogmi aprioristici, non pensiamo di indottrinare a nostra volta il popolo, non mettiamoci alla guida di una nuova intolleranza, non diventiamo gli apostoli di una nuova religione », scriveva profeticamente rispondendo all’invito di Marx ed Engels ad unirsi alla loro lotta –, un libertario allergico ad ogni ortodossia che finì per detestare Marx, secondo il quale il suo era un filosofeggiare piccolo borghese, etichettandolo come “massone ebreo”.
Ieri la Corte di Strasburgo, con una sentenza prevedibilmente destinata ad avere grande risonanza, ha condannato l’Italia (riservandosi di quantificare l’indennizzo) per aver illegittimamente proceduto alla confisca di vari terreni sui quali erano stati edificati abusivamente alcuni immobili senza aver prima condannato gli autori dell’illecito. Tra questi – oltre a Golfo Aranci in Sardegna e a Testa di Cane e Fiumarella di Pellaro in Calabria – il “mostro” Punta Perotti, costruito nel 1995 e – dopo un’altalena giudiziaria durata oltre un decennio – demolito nel 2006. Già nel maggio 2012 la CEDU si era pronunciata sul caso Punta Perotti, condannando lo Stato italiano a versare quarantanove milioni di euro alle imprese che avevano realizzato il complesso edilizio situato sul lungomare di Bari.
La motivazione della nuova decisione della Corte europea ruota intorno al mancato rispetto della proprietà privata, riconosciuta e garantita dalla nostra Carta fondamentale seppur con i limiti finalizzati ad assicurarne la funzione sociale e a renderla accessibile a tutti e fatta salva l’espropriazione, nei casi previsti dalla legge, per motivi d’interesse generale (art. 42 Cost.).
Gli imprenditori che costruirono l’edificio vennero assolti sia in primo grado che in appello, ma la sentenza di secondo grado venne annullata dalla Corte di Cassazione che dispose la confisca, da cui scaturì la demolizione. I giudici di Strasburgo sono entrati nel merito della vicenda, ritenendo che i fatti smentiscono la tesi secondo la quale la confisca avrebbe contribuito effettivamente alla protezione dell’ambiente (obiettivo dichiarato dall’Italia).
Hanno contestato, inoltre, l’automatismo applicativo della confisca, nei casi di abusivismo edilizio, previsto dal nostro ordinamento. Tale norma, difatti, non consente ai tribunali di individuare, volta per volta, gli strumenti più idonei tenuto conto delle specificità del caso.
La CEDU, infine, ha sottolineato che le quattro società coinvolte non sono mai state imputate in procedimenti aventi ad oggetto illeciti in materia edilizia (secondo la legge dell’epoca, infatti, societas delinquere non potest) e che l’unico imprenditore-persona fisica implicato è stato leso nel suo diritto alla presunzione d’innocenza (sancito dagli artt. 6 § 2 Cedu e 27 comma 2 Cost.), in quanto assolto nei giudizi di merito e poi prosciolto per intervenuta prescrizione dalla Suprema corte.
Scomposta la reazione di Matteo Salvini, che in maniera tranchant ha chiesto la chiusura della Corte europea dei diritti dell’uomo, rea di difendere ecomostri e cementificazione selvaggia. Ci permettiamo di rammentare al neo Ministro degli Interni che la Corte non è un hotspot bensì un organo giurisdizionale (internazionale e indipendente) nato per assicurare il rispetto e l’attuazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950: un organo di garanzia, insomma, che non ha come suo obiettivo la difesa di furfanti, mascalzoni, clandestini e sovversivi, ma – più semplicemente – di tutelare i diritti fondamentali dell’individuo anche da eventuali aggressioni e/o inadempimenti dello Stato. La condanna dell’Italia, dunque, in questo come in altri casi, non è un atto eversivo che lede l’ordine costituito, bensì un provvedimento che mira a ristabilire il primato della libertà sull’autorità.
Da ieri la proprietà privata non è più un furto, potremmo dire evocando il titolo di un film del 1973 di Elio Petri (in verità incentrato sul contrasto tra essere e avere, sull’insostenibile predominio del denaro nelle vicende umane, sul suo essere fonte di odio sociale, sulla sua natura di male inestirpabile che rende la proprietà una malattia, più che un furto). Torna a essere un diritto, naturalmente esercitabile nei limiti e secondo le regole che l’ordinamento prescrive.
Sergio Lorusso