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Pasquale Gesuito, il pugliese del bob alle Olimpiadi Invernali: da atleta a giudice

 
Alessandro Salvatore

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Alessandro Salvatore

Pasquale Gesuito, il pugliese del bob alle Olimpiadi Invernali: da atleta a giudice

Nato a Palese: il debutto a Sarajevo nell'84. Da poco è tornato da Pechino, otto Giochi disputati per lui

Venerdì 25 Febbraio 2022, 16:00

Pasquale Gesuito, dal debutto a Sarajevo 1984 a 24 anni come atleta all’ottava presenza ai Giochi, in veste di giudice di gara a Pechino, a 62 anni, lei resta l’unica rara presenza pugliese ad una Olimpiade invernale che è da poco andata in archivio?
«Esattamente. Per me non è una novità. Quando nel 1983 salimmo agli onori della cronaca come vincitori in Coppa del mondo sulla pista naturale del Lago Blu a Cervinia, io finanziere nativo di Palese in servizio al confine italo-austriaco e il mio compagno ristoratore del Brennero Gildo Sartore, la stampa ci battezzò “strana coppia”. È il destino, agrodolce, che mi ha piazzato sul bob».

Lei adesso ci ride sopra (sventagliando i suoi baffoni grigi che all’epoca in cui vinceva scudetti, erano biondi), ma nel 1980 l’innamoramento per il bob fu causato da un fatto doloroso che la costrinse ad un’inversione ad U che nella sua disciplina del ghiaccio sarebbe irregolare…
«Avevo ventun’anni, guidavo la motocicletta ad Ostia, quando fui investito da un auto che mi ruppe la tibia. Dissi addio alla carriera di sprinter, che faceva i cento metri in 10 secondi e 5, un soffio in più del mio amico Mennea, col quale condividevo gli allenamenti al centro federale di Formia ed i cui insegnamenti mi sono rimasti nel cuore. Quando firmò il record mondiale dei 200 metri in Messico nel 1972 piansi: ero felice per lui, per i sacrifici di quell’uomo infaticabile che noi compagni chiamavamo in pugliese “U mule”. Credo che la sua accoppiata col tecnico Vittori non abbia eguali nello sport».

Se quell’incidente non le fosse capitato, pensa che avrebbe sfondato nell’atletica, battendo le piste di tartan piuttosto che quelle di ghiaccio dove ha realmente pattinato, partecipando a quattro Olimpiadi tra Sarajevo ‘84, Calgary ‘88, Albertville ‘92 e Lillehammer ‘94 dove ha toccato l’apice ai Giochi col nono posto al fianco di Antonio Tartaglia piazzandosi davanti al suo caro amico principe Alberto II di Monaco?
«Sicuramente avrei continuato nella corsa, ma la vita mi ha prospettato un altro scenario. Quando ebbi l’incidente fui trasferito al valico del Brennero a fare il finanziere, arma che mi ero guadagnato entrando nelle Fiamme Gialle da atleta. Questo cambiamento da lì a poco mi regalò le due fortune della mia vita: il bob perché a Vipiteno cercavano ex velocisti strategici per la fase di spinta, e mia moglie di Predazzo, dove abbiamo costruito una famiglia con tre figli».

Quella del far balzare la slitta (da qui l’etimologia bob dall’inglese), spingerla da vette ripide come gli oltre mille metri della pista più grande (2 km) e tecnologica della storia (la National Sliding Center di Pechino), ed instradarla a folle velocità verso il piano, è per lei una storia di amore lunga 38 anni, che frutta risultati, compresi quelli ottenuti da commissario tecnico.
«Ho guidato la Nazionale dopo l’acuto di Lillehammer, dal 1994 al 2008. Ero sulla panchina azzurra quando il duo Huber-Tartaglia (avversario-compagno da atleta), a Nagano 1998 conquistava l’ultimo oro olimpico del bob italiano. Ed ho portato la coppia femminile Weissensteiner-Isacco, nel 2006 a Torino, a quella che resta l’ultima nostra medaglia dei Giochi. Oltre a guidare la Bulgaria ad una vittoria in Coppa del mondo femminile nel 2007».

Restando a Torino, nel bob ci fu la presenza di un altro barese: Ottolino, 11° col quartetto Italia-2. Dietro questo raro precedente meridionale ai Giochi invernali c’è la mano di Gesuito, vero?
«Sia Luca Ottolino che Marco Vignola, che sfiorò l’accesso alle Olimpiadi con la Polonia, sono dei mie conterranei. Agli inizi degli anni 2000, quando passarono dall’atletica al bob mi chiesero dei consigli, che diedi volentieri. In quel momento mi illusi che in Puglia potesse trapiantarsi la disciplina bobbistica ma la mancata inclinazione invernale e i costi necessari all’impianto fecero evaporare l’improvviso entusiasmo».

In un’intervista fatta all’«Unità» nel dopo Lillehammer lei parlò del rione della sua infanzia, «San Paolo», che definì preda della droga. Ventotto anni dopo lo scenario è cambiato?
«Fortunatamente sì. Il quadro sociale è vivibile. Lo colgo quando vengo a trovare mia mamma Giuditta che, a 95 anni, mi cucina ancora la sua splendida parmigiana. Lei è orgogliosa del suo quartiere, dove l’attuale sindaco di Bari sta facendo un buon lavoro».

Dalle temperature fredde degli sport invernali al calore delle discipline mediterranee: nel 2026 Taranto ospiterà i Giochi dei 26 Paesi bagnati dal mare, che consigli si sente di dare all’organizzazione affinché questo evento non resti un caso isolato?
«Invito a guardare a quello che hanno fatto nella mia seconda terra, in Trentino, dove accanto ai grandi impianti, hanno costruito strutture formative come i college liceali sportivi. Da qui sono usciti i campioni Paris, Visintin, Kostner e Wierer. Se a Taranto saranno costruiti lo Stadio del nuoto ed il Centro Nautico, l’organizzazione deve guardare oltre l’orizzonte, intessendo la rete attraverso cui pescare i talenti del Sud».

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