di OSCAR IARUSSI
Il ruolo di Umberto Eco nella cultura e nella società italiane, per ampiezza e influenza, è paragonabile a quello che ebbero Elio Vittorini e Alberto Moravia, intellettuali a tutto campo come lui: saggisti e romanzieri, direttori editoriali e protagonisti della vita pubblica, critici della cultura e firme della stampa. In più, il piemontese Eco era e rimase sempre «il Professore».
A Bologna nel 1975 diventò ordinario di Semiotica, creando una scuola e un autentico mito giovanile intorno a una sua creatura, il neonato e allora fascinoso Dams dove l’accademia si applicava per la prima volta in Italia alle Discipline dello Spettacolo. Un pioniere nell’industria culturale e nell’analisi delle comunicazioni di massa, Eco lo era stato fin dagli esordi professionali, poco dopo la tesi di laurea in Filosofia sull’estetica di San Tommaso d’Aquino (in seguito ottenne una quarantina di lauree honoris causa da università di tutto il mondo). Con gli altri «corsari» Angelo Guglielmi, Gianni Vattimo e Furio Colombo, egli fu assunto alla Rai nel 1954 e si misurò nel lancio dei primi programmi della Televisione, cui avrebbe dedicato parecchi testi tra i quali una memorabile «Fenomenologia di Mike Bongiorno (in Diario minimo, 1963).
Quei brillanti giovanotti - insieme ad Arbasino, Balestrini e altri - avrebbero dato vita al Gruppo 63, il movimento della «neoavanguardia» che, in un convegno palermitano nel 1963, propugnò un radicale rinnovamento stilistico nelle lettere e nelle arti, capace di restituire e, anzi, di stimolare gli umori della vulcanica Italia del boom. Insomma Eco fu sempre il rotondo, ironico, coltissimo affabulatore - barbuto e non barboso - che gli studenti e il pubblico delle conferenze apprezzavano oltremodo. Ma fu soprattutto l’innovatore instancabile, pronto a traghettare ogni volta il serio nel faceto (e viceversa), a cogliere nessi insospettabili tra Napoleone e Cappuccetto rosso, tra la Filosofia medioevale e Charlie Brown o Topolino, all’insegna di una versatilità che non rinuncia al rigore.
In questo, come Vittorini e Moravia (o nel cinema, Fellini), Umberto Eco raccoglie e rinnova un’energica tradizione italiana che non è punto romanzesca (Manzoni tra le rare eccezioni), bensì mosaicata e rapsodica, pensosa e arguta, mai dimentica dei classici greci e latini, tesa all’«opera mondo» giusto in virtù della frammentarietà allegorica e didattica che in fondo ha la matrice nella Commedia dantesca.
Semiologo principe, quindi studioso dei segni, delle valenze simboliche e delle strutture della lingua, Umberto Eco non si ritrasse dalla babele del contemporaneo: il caos non solo delle lingue, ma delle inquietudini esistenziali, degli avanzamenti e delle regressioni di massa, di un «pluriverso» delle culture che sta al cuore del cosiddetto «post-moderno», il nostro tempo. Anche il suo impegno politico, sempre orientato a sinistra, era privo della albagia tipica di molti intellettuali «organici» più al Pci che al popolo, né accondiscendeva a «suonare il piffero per la Rivoluzione», per dirla con una famosa polemica di Vittorini verso Togliatti (sebbene Eco amasse suonare il flauto dolce). D’altronde, al pari di Vittorini, Eco era un «americanista» e fu lui a segnalare il paradosso del «mito americano di tre generazioni italiane politicamente antiamericane», dal fascismo al Vietnam e oltre. E lui a coniare in un titolo del 1964 la geniale dicotomia Apocalittici e integrati rispetto alla cultura di massa, sempre per i tipi di Bompiani (tra l’altro, la stessa casa editrice di Vittorini e Moravia).
In Lector in fabula, saggio del 1979, Eco postula che sia il lettore a far interagire il proprio orizzonte di riferimento con le intenzioni dell’autore: «Generare un testo significa attuare una strategia di cui fanno parte le previsioni delle mosse altrui». Nell’Italia culturalmente ancora sotto l’influsso di Benedetto Croce e del marxismo, Umberto Eco diventa un campione dell’antistoricismo, perché il suo approccio è estraneo all’idea di un divenire continuo e progressivo. Al contrario, gli studi di Eco mettono a fuoco lo zigzagare dei processi e delle strutture antropologiche, culturali, sociali... E il testo diventa un’Opera aperta (1962), che si tratti di musica seriale, narrazione sperimentale o pittura informale.
Tanto più fa clamore il debutto di Eco nella fiction con un giallo storico medioevale, Il nome della rosa (1980), un best seller tradotto in mezzo mondo. Seguiranno altri romanzi, da Il pendolo di Foucault a L’isola del giorno prima, a Baudolino, Il cimitero di Praga, fino al recente Numero Zero, libri che dividono la critica e conquistano i lettori. Mentre Pape Satàn Aleppe, raccolta dei suoi scritti negli ultimi 15 anni, uscirà postuma, pubblicata sabato prossimo dalla Nave di Teseo, la casa editrice dei transfughi della Bompiani, che Eco ha contribuito a fondare pochi mesi fa per sottrarsi alle maglie della «Mondazzoli», la fusione di Mondadori e Rizzoli.
A proposito di concentrazioni editoriali e di potere, durante il ventennio berlusconiano, Eco è stato un oppositore tenace e non querulo dell’ex Cavaliere, al quale tuttavia riconosceva la qualità di eccezionale comunicatore, aggiungendo che la comunicazione non basta a governare bene. Da ultimo, il Professore si stava spendendo molto contro «il bar dello sport» e «le parole delle legioni di imbecilli» imperanti su Facebook e su Twitter, nonché a favore della lettura e in difesa del liceo classico. Evidentemente coglieva la minaccia dello stupidario internettiano che rischia di non innovare più granché, ma di riportare ai tempi oscuri della diceria, della leggenda e delle credenze «virali». Di Eco mancherà soprattutto questo: l’invito al viaggio nella meraviglia, rinfocolando i lumi della ragione in un mondo non sempre razionale. Con lo stupore della sua inesausta curiosità: il maestro era un bambino.