Diario di classe
L'arte ci risveglia dal torpore globale
Insolito inizio di settimana, centodieci ragazzi al teatro ad assistere allo spettacolo: «Caravaggio di chiaro e di oscuro». Un drappo rosso, una pedana in legno al centro del palco e lui: Luigi D’Elia, che in un monologo di novanta minuti racconta la vita e le opere di un artista che ha cambiato per sempre il linguaggio dell’arte
Insolito inizio di settimana, centodieci ragazzi al teatro ad assistere allo spettacolo: «Caravaggio di chiaro e di oscuro». Un drappo rosso, una pedana in legno al centro del palco e lui: Luigi D’Elia, che in un monologo di novanta minuti racconta la vita e le opere di un artista che ha cambiato per sempre il linguaggio dell’arte.
Ed è un Caravaggio più vivo che mai quello che si mostra a noi e che prende forma su questo palco a cui siamo chiamati a partecipare, inseguendo le luci e le ombre della sua vita, le stesse che si rincorrono nelle sue tele.
Improvvisamente catapultati in quel tempo, nella Roma dei primi anni del ‘600 tra opulenza e violenza. Sono gli anni della controriforma, Roma vestita a festa ma che nasconde nei suoi vicoli più bui, nei suoi anfratti, tra degrado e miseria la vita degli ultimi: dei derelitti, delle battone, di quella umanità ferita e dolente che Caravaggio tanto amava e che ha scelto di immortalare per sempre nelle pale d’altare e nelle tele. Innalzando così i dimenticati, elavandoli a ciò a cui non avrebbero mai potuto ambire e che invece sono divenuti. Madonne alle quali le giovani amanti e prostitute avevano prestato il volto, santi senza redenzione, invecchiati dalla fatica del vivere con i piedi e le mani sporcate da una umanità terrena che sembra non lasciare nessun adito alla speranza.
Mendicanti dolenti eretti a santi per l’eternità. Ed è in quegli stessi vicoli che Michelangelo Merisi consuma la sua vita e il suo tempo. Pittore errante per volontà del fato. Per il carattere iroso, ribelle, sempre pronto a tirare di spada come quel 28 maggio del 1606, quando uccide Ranuccio Tommasoni, scappa da Roma senza farvi più ritorno peregrinando di città in città in attesa di una grazia che non arriverà mai. Muore solo come è vissuto all’età di 39 anni a Porto Ercole per una febbre maligna.
E questa vita consumata in fretta, sempre al limite, tra luci e molte ombre sembra essere palpabile in ogni tela che qui oggi su questo palco sembrano prendere forma grazie alle parole di Luigi d’Elia. Vediamo senza aver visto, immaginiamo la «Morte della Vergine», la «Madonna dei Palafrenieri», «Narciso e Boccadoro», «Giuditta e Oloferne». Senza che nessuna delle immagini sia visibile all’occhio.
E ciò che colpisce, sorprende e arriva come una sciabolata al cuore, è il dolore, la fatica della creazione, il talento come maledizione e l’urgenza di vivere da riottoso, da disobbediente ad ogni dettame, come uomo e come pittore.
Commossa, emozionata e ridestata anche io, dopo novanta minuti di monologo, in cui ho partecipato con non pochi sussulti all’atto creativo, a cui abbiamo assistito tutti, finto eppure vero, verissimo, davanti ai nostri occhi e su questo palco.
Specie in un tempo in cui le giovani generazioni, ma non meno la nostra, appaiono anestetizzate, Caravaggio ridesta, ci interroga sul nostro tempo, dilaniato come allora dall’ingiustizia sociale e ci riporta ad interrogarci sul senso stesso dell’arte:
- A cosa serve l’arte, professoressa?
- A svegliarsi dal torpore, a sparigliare le carte, a immaginare nuovi altrove. A non aver timore di porsi domande scomode e di cercare risposte complesse.
L’arte è incamminarsi in strade poco battute.