TARANTO - «Ritratte. Direttrici di musei italiani» è una mostra che illumina vite e conquiste professionali di donne alla guida di primarie istituzioni culturali del nostro Paese. Si tratta di una galleria di 22 profili in grande formato, esposta a Palazzo Reale a Milano, realizzati, per la Fondazione Bracco, dal fotografo francese Gerald Bruneau, già allievo di Andy Warhol. Tra i volti che vi campeggiano, in mostra ci sono quelli delle donne custodi del nostro patrimonio artistico e archeologico: la direttrice della Galleria Borghese di Roma, Francesca Cappelletti, delle Gallerie Estensi, Martina Bagnoli, dell’Accademia di Firenze, Cecile Hollberg, del Parco Archeologico del Colosseo, Alfonsina Russo e dei Musei della Lombardia, Emanuela Daffra. E c’è Eva Degl’Innocenti, direttrice del Museo archeologico nazionale di Taranto. Il volto di Degl’Innocenti e la sua biografia segnano il punto a sud per un settore che costituisce un cardine della nostra storia e dell’economia nazionale. Un grand tour della bellezza e della cultura che costituisce, alla vigilia dell’8 marzo, anche un ulteriore tassello per la lotta agli stereotipi di genere e per la promozione delle competenze: unico discrimine per qualsivoglia sviluppo personale e collettivo.
La direttrice di un museo che finisce con il suo volto per diventare protagonista di una mostra in una prestigiosa galleria d'arte. È piuttosto singolare, che effetto fa?
«Il progetto della Fondazione Bracco è corale. È stato molto produttivo ritrovare colleghe direttrici di musei con cui condivido interessi e anche percorsi professionali, valori e ideali, impegno in questo settore di lavoro e comune sentire. Bello anche il progetto in sé. È stato trasposto negli scatti di Bruneau lo spirito, l’essenza primaria dei nostri musei. La Fondazione ha un profilo molto alto nel campo del mecenatismo culturale, porta avanti progetti di emancipazione e superamento dei gap di genere. Per il MarTa è anche indiscutibilmente una incredibile pubblicità a Milano. Consideri che la mostra è in uno degli edifici accanto al Duomo».
L’iniziativa vuole valorizzare il lavoro di tante eccellenze femminili che lavorano alla tutela del patrimonio artistico. Tante, ma non abbastanza. Perché?
«Le rispondo di pancia con una frase di Rita Levi Montalcini: “Le donne hanno sempre dovuto lottare doppiamente, portare due pesi, quello privato e quello sociale”. Il nostro ministero della Cultura ora finalmente vede una buona rappresentanza di donne dirigenti, ma se prendiamo i dati generali italiani in altri enti il percorso da compiere è ancora lungo. Per non parlare dei privati, dove le donne sono molto poco rappresentate, soprattutto nei consigli di amministrazione e dove magari esiste anche un gap remunerativo. Io sono inserita nel circuito dell’associazione “Matria Puglia”, che unisce donne provenienti da diversi ambienti, universitario, culturale, imprenditoriale. Il lockdown degli ultimi anni non ci ha aiutate. Lo dico con cognizione di causa: provengo da una lunga esperienza di vita e lavoro in Francia. È un paese molto avanti nelle politiche di sostegno alle famiglie, alle madri lavoratrici. È la politica lì che aiuta le donne a conciliare i tempi della famiglia e del lavoro per sostenere l’intera società. Non è un caso se il tasso di natalità in Francia è più alto che da noi».
Lei è al vertice di una delle istituzioni archeologiche più importanti del Paese. Come donna, il suo, è stato un percorso semplice? O ha trovato ostacoli?
«Ostacoli ce ne sono stati perché una donna ha sempre più difficoltà a far valere il proprio valore, anche se in Italia qualcosa sta cambiando. Però non è solo una questione di genere. Quando ho vinto il concorso a selezione internazionale avevo 39 anni. E se questo nel resto d’Europa è normale perché il mondo del lavoro è più dinamico, in Italia venivo additata come “ragazzina”. Eppure in Francia avevo già diretto un museo. È una visione, quella italiana, ancora un po’ paternalistica rispetto alle donne che fanno carriera magari non in età avanzata. È un fenomeno interessante dal punto di vista antropologico e sociologico. Forse se fosse stato un uomo a vincere a 39 anni il concorso non l’avrebbero detto».
Cioè, se fosse stata uomo, il suo sarebbe stato un percorso professionale più in discesa, o comunque differente?
«Sì certo. Prevalgono nella società ancora stereotipi maschilisti, non dico nulla di sconvolgente. Quando arrivai qui ero un outsider e non ero mai stata “delfina” di nessuno dei miei professori. Ho sempre conquistato tutto per conto mio. In Francia, ad esempio, a vincere la selezione pubblica fui l’unica italiana e l’unica europea non francese. Nessuno si stupì. Qui in Italia, siccome sono Toscana, quando arrivai al MarTa c’erano rumors che mi davano come amante del cugino di Renzi. Non conoscevo né Renzi, né tantomeno suo cugino. Si figuri che quando lui diventò sindaco di Firenze io ero già emigrata e iscritta all’anagrafe degli italiani residenti all’estero. Nemmeno votavo».
Siamo proprio all’archetipo dello stereotipo, andiamo oltre. Qual è il valore aggiunto che da donna sente di portare alla istituzione che lei rappresenta?
«Ognuno di noi, uomo o donna è portatore di valori. Io, Eva, credo nella meritocrazia, nel lavoro di squadra, nella polivalenza di ciascuno, nel multitasking. Ecco, trovo che questi siano riferimenti delle donne. È un tratto comune che ho ritrovato nelle mie colleghe, come anche la diplomazia e l’arte di mediare, di fare inclusione e staff con il territorio».
In questi anni abbiamo visto l’immagine del MarTa plasmarsi intorno alla società contemporanea come non era mai accaduto. Penso a Gucci, penso alle iniziative di apertura nei confronti delle famiglie e dei bambini, alle campagne social su TikTok. Era uno sdoganamento necessario per rendere accessibile a tutti il nostro patrimonio archeologico.
In che direzione oggi viaggia il Museo di Taranto?
«I risultati sono frutto di un lavoro corale. Molte società esterne con cui collaboriamo condividono la nostra visione. L’elemento centrale della progettualità resta quello della democrazia culturale. Il museo è un incubatore di cittadinanza attiva. Cittadinanza come civis, ovvero cittadino. In questo il museo come io lo intendo ha una funzione educativa e sociale. In un contesto come Taranto e il sud Italia la cultura è davvero il fattore di sviluppo più importante, la locomotiva per svoltare. TikTok era una mia scommessa. È una maniera per portare avanti la battaglia contro la povertà educativa. Collaboriamo con scuole, università, cooperative che operano in contesti sociali disagiati. Ogni arma è buona per diffondere cultura. Oggi il MarTa è di tutti. Abbiamo imbarcato team di esperti per la comunicazione culturale multi-livello al grido “nessuno resti indietro”. Se vince il MarTa vince anche Taranto».