La Rubrica

Immaginare la ripartenza dai “simboli” di Foggia

Rossella Palmieri

Chi di noi non ha mai chiesto, lanciando una monetina in fondo al pozzo, che quel gesto si colorasse di auspicio e speranza e fosse in grado di modificare il fato in un piccolo dono

FOGGIA - Oggi iniziamo da qui, dal pozzo. Dall’acqua. Abbiamo scelto di partire da un luogo di Foggia emblematico e ricco di storia e dalla simbologia di uno spazio che per sua essenza racchiude in sé qualcosa di magico perché assume svariati significati propiziatori. Il più evidente sta nel portare a galla qualcosa. E questo ‘qualcosa’ ha a che fare non solo con l’acqua, elemento primordiale e vivificante, ma anche con i desideri. Chi di noi non ha mai chiesto, lanciando una monetina in fondo al pozzo, che quel gesto si colorasse di auspicio e speranza e fosse in grado di modificare il fato in un piccolo dono. Per questo motivo, come dei viandanti stanchi ma fiduciosi, ci soffermiamo un attimo ai bordi del pozzo, probabilmente fatto costruire da Federico II, per immaginare che proprio lì, nel cuore del centro storico, si possa invertire la rotta di una città a vario titolo soggetta a un triste sortilegio. Dalle bombe della guerra a quelle della mala. Ma non vogliamo declinare questo adagio fino a convincerci che, nostro malgrado, il riscatto non ci sarà mai. Che l’acqua non salirà su con la carrucola a dissetarci. Che non si abbiano le forze sufficienti a compiere simbolicamente quel gesto. Ci piace credere che per quei bizzarri, lunghi – pressoché secolari – giri della sorte la storia di oggi si possa collegare come un invisibile filo rosso allo stupor mundi di Federico II che tanto amò questa terra al punto da farne sede imperiale. Ci piace pensare che abbiamo generazioni sempre fresche e giovani cui consegnare un lascito importante fatto di valori e di industrioso operare. E vogliamo che nessuno di loro si senta figlio di un dio minore in questa terra alla ribalta della stampa anche inter- nazionale per loschi affari di mafia e mala. Ancora, crediamo che tutte le categorie dei lavoratori appartenenti a quell’ampia borghesia solida e persino austera, forgiata di padre in figlio nella disciplina dal dopoguerra in poi, possano sentirsi parte attiva di quei processi sani che toccano tanti gangli sensibili: le scuole, le associazioni, il volontariato, i centri di aggregazione e socializzazione, le parrocchie, le fondazioni, il Conservatorio e l’Università. Avamposti in cui donne e uomini mettono piede ogni giorno con l’incanto del terzo occhio, quello che racchiude mente e cuore, quello che non si arrende al non si può e che ha intenzione di non firmare alcun atto di resa. Come nelle favole, attingiamo l’acqua al pozzo, ben consapevoli di non cadere nell’inciampo e nell’incanto di cercare la luna al suo interno. E neanche di cascare nell’inganno. Come nella favola di Lafontaine dove la volpe fa precipitare il lupo giù nel pozzo con il pretesto di un pezzo di formaggio da condividere. Di condivisione abbiamo sete, questo sì, ma di cose belle e non ingannevoli.

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