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Gerusalemme incandescente per la Danza delle bandiere

 
FRANCESCA BORRI

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FRANCESCA BORRI

Gerusalemme incandescente per la Danza delle bandiere

Pacifisti e ultras nella festa nazionale tracimata nel nazionalismo

Domenica 21 Maggio 2023, 10:00

Gerusalemme. Entrando, il primo cancello a sinistra è un caffè arabo. Si apre appena. E subito, tutti gli si avventano contro. A capo dell’assalto, uno che avrà non più di 13 anni. Viene trascinato via dalla polizia, e quando si svincola, sputa al corrispondente della CNN. Giusto perché gli sta davanti. Spostati!, gli ordina un agente spintonandolo a terra. A quello della CNN: non al ragazzino. Che passa a sputare al giornalista accanto.

Ma che sta diventando Israele?

Il Jerusalem Day è il giorno della Danza delle Bandiere. Ogni anno migliaia di israeliani celebrano la riunificazione di Gerusalemme, la cui metà est è stata conquistata, o più esattamente, occupata, nel 1967, attraversando la città con una bandiera, e canti e balli, fino al Muro del Pianto: che dall’altro lato, è la moschea di al-Aqsa. Potrebbero arrivarci anche dal Jaffa Gate, dall’area cristiana della Città Vecchia. E invece, entrano dal Damascus Gate. Dall’area musulmana. Scontrandosi con tutti i palestinesi in cui si imbattono.

Perché più che una festa nazionale, ormai è una festa nazionalista.

Lo slogan era Lunga vita a Israele. Ora è: Morte agli arabi.

In realtà, i primi ad arrivare sono i pacifisti. La sinistra. O quello che ne resta. Arrivano con dei fiori per i palestinesi, molto hippie, mentre i palestinesi sprangano tutto e si rintanano in casa. «E pensi che basti una margherita?», ribatte uno a un’attivista vestita da coccinella. E tira dritto. Finiscono ai turisti. Che intanto, sono in giro come se niente fosse.

E ti chiedono un momento l’elmetto per un selfie.

La violenza, qui, è parte del paesaggio.

Gli israeliani arrivano all’improvviso. Un po’ in anticipo. E più che arrivare, piombano sulla Città Vecchia. Non arrivano tutti insieme, per ragioni di sicurezza: travolgerebbero tutto. Arrivano a gruppi, a ondate, e quello che più colpisce, è che sono ragazzini. Letteralmente. Sotto i vent’anni. Ragazzini delle colline, come si dice qui, ragazzini degli insediamenti, inconfondibili, con le treccine, i jeans sdruciti, le Birkenstock. La kippah all’uncinetto. Nella West Bank i coloni ormai sono 500mila, e altri 200mila abitano a Gerusalemme. Uno ogni cinque palestinesi. E uno ogni dieci israeliani, non così tanti, alla fine: ma sono i più visibili. E ora, si riversano qui come hooligan, infilandosi in ogni vicolo, tentando di forzare ogni serratura, rovesciando secchi, tavolini, ogni cosa, arrampicandosi su per le grate in ogni finestra socchiusa. Su dai tetti, sventolano le bandiere come gli ultras: e come gli ultras, cercano la rissa. Nient’altro. Pestano l’unico palestinese che trovano, poi attaccano briga con un bambino. Poi, non avendo altro, passano ai giornalisti. Ti circondano, ti stringono in un angolo, e più rimani impassibile, più ti si stringono addosso, ti puntano le dita alla tempia: come a dire che ti meriti un proiettile.

Hanno bisogno di un nemico. Un nemico qualsiasi. E dopo gli arabim quale sarà?

Cosa fai nella vita? domando a uno che viene da Gush Etzion. Vicino Hebron. «Occupo la terra». E quando non occupi la terra? «Lavoro». Che tipo di lavoro? «Qui e lì». Ma cosa hai studiato? «La Torah». E se fossi il primo ministro? Quale sarebbe la tua priorità? «Trasferire gli arabi». E se gli arabi non volessero andarsene? Tira fuori un accendino.

Poi dice: E tu vai via, o ti spacco la testa?

Sono tutti così. Tutti. Non dicono altro. E comunque, inizi a parlarci: e immediatamente un poliziotto ti strattona via. I coloni sono i più visibili, qui: e i più inaccessibili. Guardati dagli altri israeliani come fossero un altro mondo. Un’altra Israele. Un’Israele per cui non c’è niente da celebrare. E però, gli insediamenti non sono un’iniziativa privata. Sono una strategia dello stato, di tutto lo stato, che mobilita ogni sua istituzione perché Israele continui ad avere una maggioranza ebraica: per un colono, lo Stato spende tre volte di più che per un comune cittadino. E per molti, più che la Bibbia conta l’economia. A Tel Aviv una casa costa 10mila euro al metroquadro: nella West Bank, 1.500.

Solo il 30 percento dei coloni è guidato dall’ideologia, ma è il 30 percento che ora sta al potere, perché dopo cinque elezioni in quattro anni, Israele ancora non ha un governo solido, e senza i coloni, Netanyahu non avrebbe la maggioranza: e senza la maggioranza, non avrebbe l’immunità nei molti processi in cui è imputato. Ed è per questo che uno come Itamar Ben-Gvir, esonerato dalla leva perché troppo estremista, ora è ministro.

Ministro alla Sicurezza.

E quindi, i poliziotti oggi presidiano ogni angolo, e guardano i coloni come se arrivassero non dalle colline, ma dal medioevo: però poi bloccano i palestinesi, bloccano gli aggrediti, invece degli aggressori. All’unico che passa, e che ha delle cassette di verdura, perquisiscono anche l’insalata, i cespi di lattuga. Uno a uno. Ai ragazzini, niente. A tratti, ballano tutti insieme. E per il resto, guardano altrove.

Fino a quando non gli sputano addosso.

Perché i coloni sono così con tutti. Non solo con gli arabi.

Con tutti quelli che gli intralciano la strada.

E finora, nel 2013 si sono già avuti più di 170 morti. Più di uno al giorno.

Gli israeliani non vogliono che l’altra Israele finisca sulle prime pagine, e uno dopo l’altro, veniamo tutti acchiappati per il collo e scortati fuori. Nello spiazzo davanti al Damascus Gate. Ma fuori, non è che sia diverso. I coloni sono migliaia, e appena un arabo fa capolino dall’alto, da sopra le mura, cominciano a tirargli contro di tutto. Non è neppure un arabo, in realtà. È un giornalista israeliano. Che corre via: e si ritrova davanti un ragazzino tranquillo sul prato con un M16 a tracolla.

I coloni sono autorizzati a girare armati.

Arriva Itamar Ben-Gvir intanto. E mentre la nostra attenzione è tutta lì, sul retro i coloni scostano le transenne. E gocciolano via uno a uno.

I poliziotti continuano a guardare altrove.

E tutti si avviano verso via Salah Eddin. Verso la metà araba di Gerusalemme.

Un accendino in tasca. In cerca di benzina.

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