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«Speravo mi ammazzasse così non avrei sentito nulla»: storia di violenza dal Salento

 
Fabiana Pacella

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Fabiana Pacella

«Speravo mi ammazzasse così non avrei sentito nulla»: storia di violenza dal Salento

Il racconto di Sandra (nome di fantasia) abbandonata dalla mamma e picchiata dall'uomo che amava

Mercoledì 02 Giugno 2021, 10:14

Una storia al contrario. Dalla luce, a ritroso negli anni e negli antri di un rapporto malsano. Un uomo condannato per dodici capi d’accusa diversi (uno peggior dell’altro se si volesse immaginare una scala) dal tribunale di Taranto, tanto forte nello sferrare pugni al volto di sua moglie quanto vigliacco da sparire, ora che deve scontare una pena.
Forza coi deboli e vigliaccheria quotidiana, penoso refrain. Ancora più specie però fa che il papà di Sandra, protagonista dell’ultima pagina in ordine di tempo di «Voci dall’Inferno», sia un uomo dello Stato. Uno che ha sempre indossato la divisa, padre di cinque figli che vivono in parti diverse d’Italia, persona perbene che ha combattuto la mafia.
«Non ho mai raccontato niente a papà - singhiozza lei -, papà mio…lui non sapeva». Due colpi assestati dritti nello stomaco uno appresso all’altro, quel silenzio e quei singulti. Difficile ascoltare e scrivere addomesticando il cuore alla resistenza. Perché Sandra è una bimba di 30 anni, una vita appena venuta al mondo. Una che fa tenerezza, ché ancora non ha capito quale gusto di gelato le sia preferito. Non ha avuto il tempo di conoscersi, di scegliere, di amarsi.

«Sono nata dall’uovo di Pasqua», ha sempre ripetuto a chi le chiedesse delle sue origini.
«A due anni sono stata abbandonata da mamma che mi ha lasciato vicino casa dei nonni, non ho mai superato. La sindrome dell’abbandono mi ha accompagnato ogni giorno», come un cappio al collo che toglie ossigeno. «Non ho mai usato l’espressione “mamma che dolore”, per non usare quella parola, mamma…troppo male dentro».
Ogni tempesta viene preannunciata da un lampo, poi dal tuono. Il fragore e giù la pioggia, la cui durata è variabile a seconda di quanto siano cariche le nubi.
Per Sandra è stato così. Ora, a fare ordine, qualche giorno fa la condanna a due anni e rotti di lui. Una vittoria, nero su bianco. Poi occorre ricominciare dai graffi dell’anima.
«Lo hanno condannato per tutto - ripete la donna -, i maltrattamenti in famiglia, lo stalking, per quando mi ha fracassato la testa causandomi trauma cranico, per gli 800 messaggi whatsapp che pareva di sentire le frasi di Shining, e poi le minacce di morte, quei “sto venendo a prenderti, arrivo”, e il cazzotto in faccia che mi ha fatto cadere a terra priva di sensi, le minacce alle mie amiche perché mi avevano aiutato…».

Prende aria, fiato, un sorso d’ansia e la paura di nuovo: «È sparito per cui sono preoccupata, non risponde ad avvocati né a nessuno, ho paura. Ma voglio che tu sappia una cosa, mi sono messa con lui a 17 anni, son stata con lui 10 anni. Ne ho trenta ora. Gli dissi di prendersi cura di me perché avevo sofferto l’abbandono ma ha usato questa debolezza contro di me».
E lui: “devi essermi grata perché ti ho raccolto da terra che non avevi nessuno». Un’espressione che sintetizza dieci anni di vita, meglio vitaccia. «Ho sbagliato io perché non avevo un esempio di famiglia, mi sono fatta fregare, me la sono cercata».
Singhiozza e si dispera, si imbarazza e si chiude come un riccio che ha ancora tanta paura. Che effetto fa, vederla così bella e così fragile. Una crisalide che sta per spiegare le ali sulla vita, con un peso così grande da temere che le si pieghino per poi spezzarsi.
«Ho sempre lavorato in campagna, mattina e sera ma non dovevano esserci uomini e dovevo avere magliette lunghe fino alle ginocchia, niente amiche, niente vita sociale, non dovevo avere nessun contatto con altri, né esprimere pensieri quando eravamo con i suoi amici. Ho sempre abbassato lo sguardo, in vita mia, mentre parlavo. E la notte, la notte poi…lui attaccava il mio cellulare al suo pc, per controllare ogni mio spostamento, ogni mio contatto e c’era sempre una ragione per prendere botte».

Due vuoti, che si sono incontrati per diventare…voragine. «Ti prego, non farmi del male», lei. “È vero, io più volte ti ho storpiato di botte ma mi devi ringraziare perché così ti ho fatto capire”, lui.
Sono dovuti passare anni e valanghe di dolore prima che Sandra capisse che tutto ciò non le toccava. Silvia, la psicologa del “Renata Fonte” di Lecce l’ha aiutata e ancora la strada è lunga.
«Si indigna Silvia, quando le dico che non sono le botte e le violenze che mi hanno fatto male - confessa ancora la donna -, ma le parole con cui mi sminuiva, mi faceva sentire inutile, dipendente. E quante volte mi sono augurata che mi ammazzasse, così finalmente non avrei più sentito nulla».
Un giorno all’improvviso Sandra ha preso un pullman, poi un treno, da Taranto a Lecce. Ha bussato a una caserma. «Ho incontrato un carabiniere straordinario che mi ha consigliato il Renata Fonte, non pensavo che le donne potessero essere brave con le donne. Lì l’ho capito. Dietro quell’albero enorme con radici forti, come Maria Luisa Toto, piccola e immensa». Le minacce di lui e dei suoi amici, anche con tono mafioso sono andate avanti. «Sei come tua madre, abbandoni gli altri, ma io vengo lì e ti sfregio e non sarai di nessun altro». Ma no, Sandra non era come sua madre. Ha deciso che la vita andava abbracciata, non abbandonata.

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