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Bellocchio e Gifuni: il fantasma di Moro in tv parla dell’Italia di oggi

Bellocchio e Gifuni: il fantasma di Moro in tv parla dell’Italia di oggi

 
Oscar Iarussi

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Oscar Iarussi

Bellocchio e Gifuni: il fantasma di Moro in tv parla dell’Italia di oggi

L’elemento del grottesco e la dimensione del tragico coesistono nell’identità italiana. Straordinaria prova dell'attore che in «Esterno Notte» fa «rivivere» lo statista assassinato dalle Br con eloquio e gestualità misuratissimi ma esplosivi

Mercoledì 16 Novembre 2022, 11:58

29 Novembre 2022, 09:32

L’elemento del grottesco e la dimensione del tragico coesistono nell’identità italiana, che Piero Gobetti definì «l’autobiografia di una nazione» identificandola con il fascismo. Ma quella autobiografia si nutre di altri capitoli nel corso del secondo Novecento, fra i quali senz’altro vi sono l’omicidio di Pier Paolo Pasolini nel 1975 e il caso Moro, cioè il rapimento e l’uccisione del presidente della Democrazia cristiana, 16 marzo-9 maggio 1978. Le Brigate rosse perpetrano la strage di via Fani a Roma, in cui perdono la vita i cinque uomini della scorta, e sequestrano Aldo Moro sull’orlo del varo di un nuovo Governo Andreotti, un monocolore democristiano aperto al sostegno parlamentare del Partito comunista italiano. Moro ne era stato l’abile tessitore con l’intento di superare un sistema quasi paralizzato dalle forze contrapposte nella cornice della divisione geopolitica fra il blocco atlantico e l’impero sovietico, ben prima del crollo del Muro di Berlino nel 1989. Una determinazione morotea (sembra un ossimoro, eppure non lo è affatto) ad assorbire e contenere i conflitti che fu invisa a molti in Italia e all’estero, come adesso adombra anche la serie Esterno notte di Marco Bellocchio. Dopo la trionfale accoglienza all’ultimo Festival di Cannes e l’uscita primaverile in sala, la serie sta andando in onda con grande seguito su Raiuno (domani sera la terza e ultima parte).

Al pari di Pasolini, Moro è un fantasma ciclicamente pronto a inquietare e a interrogarci, come conferma un magnifico romanzo di Andrea Pomella, Il dio disarmato, da poco edito per i tipi di Einaudi. Ne è persuaso Fabrizio Gifuni che in teatro ha elaborato la fine di entrambi, il poeta e il politico, quali capri espiatori della nostra storia recente. L’attore nel film tv di Bellocchio fa letteralmente «rivivere» lo statista originario di Maglie (dov’era nato nel 1916), non certo in maniera mimetica nonostante l’impressionante somiglianza, e per certi versi «replicando» la prova in scena di Con il vostro irridente silenzio, una sua drammaturgia del memoriale e delle lettere dalla prigionia di Aldo Moro, diventata anche un libro edito da Feltrinelli. Moro è un leader isolato e incompreso, cui si vuole attribuire uno stato di alterazione o addirittura la pazzia da parte dei suoi colleghi di partito che, come i comunisti, si oppongono a qualsivoglia trattativa con i terroristi (diversa fu la posizione di Bettino Craxi e del Partito socialista). L’amarezza del protagonista e certi suoi sensi di colpa retrospettivi, insomma un autentico senso del tragico, si colgono grazie all’eloquio e alla gestualità misuratissimi eppure esplosivi dell’impareggiabile Gifuni, affiancato fra gli altri da Margherita Buy, ostinata e dolente Eleonora Moro, e da Toni Servillo negli abiti papali di Paolo VI.

Fa testo, per esempio, la confessione di Moro a un sacerdote poche ore prima della morte nel covo romano delle Brigate rosse. Un episodio di fantasia, che del resto è all’opera già nel prologo in cui Bellocchio mostra Moro liberato dai suoi carcerieri e in un letto di ospedale, deciso a dimettersi da ogni carica al cospetto degli amici-nemici Giulio Andreotti, Benigno Zaccagnini e Francesco Cossiga sul cui carattere «bipolare» e tormentatissimo la sceneggiatura è al contempo pietosa e impietosa (lo interpreta Fausto Russo Alesi).

Già nel 2003 Bellocchio aveva offerto una rilettura onirica della vicenda nel film Buongiorno, notte di cui questa serie è figlia. Una vena di irrealtà, struggente, era incarnata allora da Roberto Herlitzka nell’epilogo choc: il prigioniero libero in strada all’alba, sereno e smarrito... Moro come un politico dalla sostanza impolitica e talora quasi lirica (le sue «convergenze parallele» degne di un paradossale ermetismo alla Vittorio Bodini), un potente impotente dalla sostanza scespiriana. «Essere o non essere, questo è il problema: se sia più nobile d’animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell’iniqua fortuna, o prender l’armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli». Amleto c’è sempre, anche nel dubitare straziante di Moro in Esterno notte, che non è cinema d’inchiesta, bensì indagine psicologica lungo il crinale di scelte cruciali che, cambiando la vita di un singolo, incidono sulla storia di tutti. È la cifra sempreverde dell’ottantatreenne Bellocchio, dal lontano esordio di I pugni in tasca a Nel nome del padre, fino a Vincere (il Mussolini «segreto») e Il traditore (il caso Buscetta): svelare le contraddizioni di un organismo sociale o politico è già sottrarsi alla sua tirannia. L’essenza della rivolta è un’assenza, la diserzione dal cinismo della realtà, il tradimento attuato o subito del proprio mondo.

Con la sua lingua tersa e talora lapidaria, pochi giorni prima di essere rapito, Moro ammonisce: «Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere». Non diremmo sia poi mai nato e tuttora ci fa difetto, mentre prendeva piede il primato del grottesco di pari passo con il declino della politica e delle classi dirigenti. Ricordare Moro è parlare di oggi.

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