L'intervista

Gianrico Carofiglio: «Giustizia a rischio per i veti incrociati»

Leonardo Petrocelli

L'ex magistrato e scrittore: «sono ottimista, ma corporazioni e partiti rischiano di ostacolare la riforma»

BARI - Una riflessione a tutto campo sulla giustizia, tra necessità di riforma e nodi critici che stanno attraversando il dibattito in queste settimane. E’ l’equilibrio la bussola di Gianrico Carofiglio, scrittore, ex magistrato e già senatore, da gennaio in libreria con il fortunato La disciplina di Penelope (Mondadori, 2021), al momento il secondo libro più venduto dell’anno. Il suo esordio narrativo, invece, Testimone inconsapevole del 2002, è appena giunto alla centesima edizione, caso unico per un autore vivente.

Carofiglio ci voleva il Recovery Fund per incoraggiare una seria riforma della giustizia?
«A quanto pare sì, ma non è una buona notizia. Sarebbe stato meglio fare questo tipo di riforme in maniera spontanea e soprattutto superando il problema principale, cioè il conservatorismo delle corporazioni. Mi riferisco a magistrati e avvocati , entrambi parte del problema in modi diversi. Sostenevo questo punto anche quando ero magistrato, non è una frase da pentito (ride, ndr)».

C’è di buono che si è anche compreso, finalmente, il legame fra giustizia e sistema Paese, in particolare in riferimento all’economia. Se gira l’una, gira anche l’altra.
«È addirittura una ovvietà. Se uno deve investire in un territorio ma un problema con un fornitore rischia di tradursi in una causa di anni allora sposta i propri denari altrove. Il legame è fin troppo evidente».
Iniziamo a entrare nel merito, dunque. Da dove bisognerebbe iniziare per riformare seriamente la giustizia italiana?
«Non sono un esperto di procedura civile ma è fin troppo evidente la necessità di semplificare, in modo rilevante, la produzione delle decisioni. Questo si può fare in molti modi ma una chiave di volta è l’alleggerimento degli oneri di motivazione. Naturalmente, è necessario procedere con meccanismi flessibili e con tutte le garanzie del caso, evitando che queste ultime diventino trappole. C’è un percorso scivoloso che può trasformare le garanzie sane in garantismi. Serve la massima attenzione»

Un punto che agita il dibattito, dalla vicenda Palamara fino ai recenti casi di Bari, è quello della «moralizzazione» della magistratura. Come intervenire?
«La questione c’è ma io distinguerei. Nel caso delle recenti vicende baresi si tratta di fatti criminali, mentre la moralizzazione riguarda costumi, relazioni, comportamenti. C’è un problema aggravatosi negli ultimi anni che oggi impone la definizione delle regole per la formazione dell’autogoverno».

C’è chi invoca la cancellazione delle correnti in magistratura.
«Questa è una sciocchezza. Le correnti, se correttamente intese, sono espressione del pluralismo culturale della magistratura. Purtroppo, per molte ragioni, sono diventata anche - se non soprattutto - macchine di distribuzione di incarichi. Non tutte allo stesso modo ma è inutile negare che il problema esista».

E dunque come riformare il Csm? Con il metodo del sorteggio secco?
«Il sorteggio secco viola le regole democratiche e rischia di mandare al Csm persone incompetenti o peggio. E tuttavia nel sorteggio c’è un principio giusto: il tentativo di sottrarre il rappresentante a un vicolo rigido verso il gruppo organizzato - a volte clientelare - che l'ha fatto eleggere».

Qual è la soluzione allora?
«Io un’idea ce l’ho: se i posti per i magistrati al Csm sono 20 allora si procede alle elezioni con liste e correnti per individuare 100 persone che siano espressione della rappresentanza democratica. Ed è tra questi, in seconda battuta, che si può procedere al sorteggio, tenendo così insieme le due legittime esigenze. Sostengo questa soluzione da tempo, ma è bene ricordare che quasi nessuno è d'accordo».

Andiamo avanti con un altro nodo spinoso: la separazione delle carriere. Lei è d’accordo?
«Non credo sia una buona idea, innanzitutto per una ragione culturale: se i pubblici ministeri vengono separati dai giudici rischiano di essere attratti da una cultura di polizia e soprattutto di diventare un super potere, una casta di autogovernati con un Csm a parte come sostengono, con scarsa lungimiranza, molti sostenitori della separazione. L’unico antidoto a questo pericolo è che l’autogoverno sia il medesimo per giudici e pm e le carriere non siano separate. Occorre mantenere una cultura comune della giurisdizione e delle garanzie, con vincoli rigidi - ma quelli n gran parte ci sono già - per il passaggio da una funzione all'altra».

L’enfasi mediatica posta sul tema della prescrizione è giustificata secondo lei?
«È una questione spesso agitata, da una parte e dall’altra, in modo demagogico. Un giudice o un avvocato americano si metterebbero a ridere stupefatti sentendo i termini di questa disputa tutta italiana. Il cuore del problema è piuttosto evidente: deve essere garantito un tempo accettabile dello svolgimento del processo. Ma questo si fa intervenendo sulle norme che regolano il processo stesso, in modo stringente e con sanzioni per tutti, avvocati e magistrati. Chi accusa la riforma Bonafede di mettere l’imputato sotto processo per sempre lo fa spesso in modo strumentale ma il problema resta e si risolve solo, lo ripeto, andando al cuore della faccenda».

A fronte di tutto questo, qual è alla fine il vero avversario di una buona riforma?
«Certamente i veti incrociati che in partiti possono mettere in campo in una maggioranza così variegata come quella attuale»

Quindi il governo guidato da Mario Draghi non è quello giusto per portare a casa il cambiamento?
«Voglio essere ottimista perché c’è un ministro molto competente oltre che un calendario dettato dalla congiuntura particolare che attraversiamo. Anche la debolezza attuale della magistratura - che in sé non è un bene - può contribuire a depotenziare parte delle spinte conservatrici di cui si parlava prima».

A proposito di veti, crede che negli ultimi anni il Paese abbia assistito a una deriva ideologica su questi temi? Il riferimento è in particolare al Movimento 5 Stelle.
«La dimensione ideologica ha caratterizzato la loro azione fin dall’inizio e non solo in riferimento alla giustizia ma anche sul resto. Occorre peraltro registrare un’evoluzione interessante e meno ideologica in questa forza politica. Peraltro non vedo meno ideologia nei temi declinati dalla destra».

E il campo progressista invece?
«Al momento ci sono confusioni e sbandamenti. È necessario trovare una linea di indirizzo percepibile dai cittadini, recuperando e dichiarando con coraggio i valori di riferimento - primo fra tutti la lotta contro le disuguaglianze - che giustificano l’esistenza stessa della sinistra. Il mio consiglio ai dirigenti della sinistra e del Pd in particolare è di dimenticare l’esistenza dei sondaggi e concentrarsi sui valori e sul modo migliore per comunicarli ai cittadini».

L’ultima battaglia è quella sulla tassa di successione che pure lei ha difeso. C’è stato un errore di comunicazione?
«Poteva essere esplicitata meglio. Una proposta del genere deve essere necessariamente corredata da una comunicazione capace di colpire l’intelligenza e la fantasia dei destinatari e una persona come Letta ha tutti i mezzi per farlo. La destra semplifica dicendo che si vogliono togliere i soldi ai cittadini. In realtà esistono patrimoni spaventosi di decine e decine di milioni piovuti sulla testa di persone senza meriti concreti ma per la casualità dell’eredità. In Francia si chiama tassa sulla fortuna. Qualcuno mi dovrebbe spiegare perché un signore che ha beneficiato di una eredità di 20 milioni di euro non può contribuire al bene e alla vita comune con 200mila euro».

Su questo, però, il premier Mario Draghi ha «silurato» il segretario dem: è il momento di dare soldi, non di prenderli.
«Se è vero quello che hanno riferito è stata una esternazione al di sotto del suo livello. Ridurre le terribili disuguaglianze che affliggono questo Paese, dotando anche chi non ha nulla di una capacità di spesa che riattiverebbe l’economia, dovrebbe essere una priorità».

Chiudiamo infine sulla cultura che ricomincia a camminare. Lei si era battuto in prima linea per riaprire le librerie anche nel momento più buio della pandemia. I numeri di vendita dei libri le hanno dato ragione.
«Finalmente sta ripartendo un po’ tutto, dai cinema ai teatri ai festival. Quando si parla di cultura si rischia sempre di dire banalità ma durante il lockdown, ed è forse l’unico effetto positivo riscontrato in pandemia, abbiamo constatato l’impennata notevolissima del mercato dei libri. È una lezione da sfruttare e da non disperdere, ma non per mercificare la cultura bensì per comprendere il potenziale vero di questa ricchezza ed estenderlo ben oltre i confini di una piccola casta di privilegiati».

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