In che acque navigherà l’Italia dopo il Coronavirus? Apriamo oggi un ciclo di interviste a economisti, giuristi e sociologi per capire cosa attende il nostro Paese oltre il guado della pandemia. La prima conversazione è con Alessandro De Nicola, economista di ispirazione liberale, avvocato e presidente della Adam Smith Society.
Professor De Nicola che tipo di Italia emergerà dalla fine della pandemia?
«Sicuramente un’Italia più povera e più indebitata. E penso sia una conseguenza inevitabile. Non c’è alcun Paese, tra quelli toccati in maniera significativa dall’emergenza, che avrà sorte diversa».
Ma non c’è un pericolo che aleggia in modo particolare sul futuro del nostro Paese?
«Sì, uno c’è. Cioè il rischio che l’Italia esca da questa vicenda ancora più regolamentata, anziché snellita. Questa è una cosa che dobbiamo assolutamente evitare».
Si riferisce all’ingigantirsi della burocrazia?
«Sorvolerò per carità di patria sul moltiplicarsi grottesco delle autocertificazioni, ma ci sono grandi e piccole storie che segnalano una deriva pericolosa. Dal poliziotto che discrezionalmente multa l’omino per essere uscito a comprare del vino, non giudicandola una necessità valida, all’imprenditore che non riesce a importare mascherine perché schiacciato dalla burocrazia. Spero che tutto questo sia solo dovuto al panico e non ad una recrudescenza dei nostri vizi. E mi lasci dire: quanto utili ci sarebbero stati i voucher per irrobustire quei pochi servizi ancora attivi, dalla vendita degli alimentari alla distribuzione domiciliare? La Storia dovrebbe aver insegnato qualcosa».
E cioè?
«La crescita italiana nel Dopoguerra fu vorticosa, seppur disordinata, in quanto libera: apertura delle frontiere del commercio estero, adesione al mercato comune, poche tasse, politica di bilancio prudente. Ecco, noi dovremmo cogliere questa occasione per disboscare la nostra burocrazia».
Qualcuno sostiene che l’emergenza ci abbia dato un altro suggerimento: investire di più nella sanità pubblica.
«Negli ultimi vent’anni la spesa per la sanità è aumentata passando dal 5,5% al 6,5% del Pil. Sono svariati miliardi. Il punto è come questi soldi vengono impiegati. E poi c’è tutto il problema della concorrenza con il solito odio atavico verso il privato: ma in Lombardia senza il San Raffaele, il San Donato e l’Humanitas come avrebbero fatto? Non sono ospedali per ricchi: sono ospedali per tutti gestiti con criteri di economicità. Chi se lo può permettere va con una assicurazione e questo non è un male, anzi è un bene».
L’esempio americano, però, fa rizzare i capelli.
«Sì, ma quello americano è un sistema disordinato, che non funziona, con blocchi in entrata e in uscita. Non è affatto un buon esempio di libero mercato. Invece una sana concorrenza fra pubblico e privato può far molto. E ricordo, per inciso, che chi ricorre all’assicurazione sta gravando di un costo il Sistema sanitario nazionale».
Cambiamo sequenza e proiettiamoci a Bruxelles. Crede davvero che questa possa essere la fine dell’Unione europea?
«Non le nascondo che il rischio c’è».
Il continente è spaccato in due: da una parte i falchi del Nord, dall’altra i Paesi mediterranei in difficoltà. Chi ha ragione?
«La solidarietà o è cristiana, cioè a fondo perduto, o esiste perché c’è qualcuno che la finanzia. In questo caso i Paesi del Nord dovrebbero dare garanzie per gli Eurobond, cosa che non vogliono fare, e quelli del Sud, da parte loro, arrivare a un compromesso. E anche qui c’è reticenza».
Quindi sbagliano tutti?
«I Paesi del Sud hanno molte colpe nella gestione dei loro bilanci, non c’è dubbio, ma - ed è un richiamo alla Germania - ci sono momenti eccezionali della Storia in cui bisogna avere un atteggiamento diverso. Ecco, l’Italia e gli altri sono stati un po’ indisciplinati ma non è un buon motivo per non aiutarli».
Anche perché se l’Italia fallisce...
«Sì appunto. La Germania deve capire che non si tratterebbe di vedere il vicino di casa che si butta dal balcone e muore nel suo giardino, in silenzio e senza contraccolpi. Lo scenario è un altro: al vicino esplode il garage e tutti ci vanno di mezzo».
Gli Eurobond sono lo strumento giusto?
«Vede, non sono contrario agli Eurobond, ormai ridotti quasi a un feticcio, ma si tratta di uno strumento “lungo”, non aiutano nell’immediato. Sarebbero stati molto più preziosi tre mesi fa, con una economia stagnate che aveva bisogno di ripartire».
Quindi cosa resta?
«Resta il Mes: aiuti immediati in cambio di riforme».
Proprio quelle riforme, con annessa Troika, spaventano...
«Nella situazione attuale è lo strumento più adatto. E poi la Troika non c’è più e il Mes si può usare in versione light».
Infine professore, in molti, perfino i sovranisti, puntano su Mario Draghi per l’immediato futuro. Le piacerebbe vederlo alla guida del Paese?
«Come italiano sì, ma se fossi in Draghi mi chiederei come tenere insieme una maggioranza litigiosa che andrebbe dal Pd al M5S alla Lega. Solitamente quelli sono d’accordo solo su una cosa: fare ancora più spesa pubblica».