Ufficialmente ricercato dagli Alleati nel Dopoguerra, «vivo o morto», sarebbe fuggito in Argentina imbarcandosi su una nave a Bari nel 1947, sotto smentite spoglie, Martin Bormann, braccio destro di Adolf Hitler (segretario personale del Führer e numero uno del partito nazista, il Nsdap). Di sicuro, sfuggì all’esecuzione capitale alla quale lo condannò, in contumacia, il tribunale speciale di Norimberga il 1° ottobre 1946. E quanto ha raccontato l’ex agente segreto inglese Ian Bell smentisce la «versione ufficiale», secondo la quale Bormann sarebbe morto a Berlino in combattimento il 2 maggio 1945 (tra l’altro la condanna testimonia l’assenza di certezze sulla sua fine), avvalorando la tesi che siano suoi i resti trovati nel 1972 nel corso di scavi vicino alla stazione ferroviaria Lehrter nella città tedesca, poi cremati e dispersi nel 1999. Ma il dubbio è che quei resti siano stati seppelliti lì dopo essere trasportati dal Sud America o dalla Russia, perché le ossa erano ricoperte di una terra rossiccia che poteva provenire, per le sue qualità chimiche, solo da uno dei due Paesi extraeuropei.
Ma perché riesumare le ossa del gerarca? Per depistare le indagini dei «cacciatori di nazisti» sugli altri pezzi grossi del Terzo Reich fuggiti oltre Atlantico (con le operazioni «Ratline», «via di fuga del topo», e «Odessa»).
«Il comando mi ordinò di non arrestarlo» - La sua versione sulla vera fine di Martin Bormann, l’ex ufficiale britannico Ian Bell (diventato «cacciatore di nazisti» dopo essere fuggito da un campo di prigionia in Nord Africa) l’ha raccontata in una lunga intervista registrata dal network tematico «Discovery Channel» ed è stata largamente trascritta nel libro «Hitler in Argentina. La vita del Führer dopo la seconda guerra mondiale» degli inglesi Simon Dunstan e Gerrard Williams, nel quale si adombra la tesi che il Führer in realtà non morì suicida nel bunker di Berlino conquistata dalle truppe nemiche.
Il racconto di Bell, così come descritto nel volume, ci porta nel dicembre 1947. Due anni dopo la fine del conflitto mondiale, per evitare la cattura, Bormann avrebbe deciso di fuggire in Sudamerica organizzando un convoglio che però il «cacciatore» inglese, con due suoi sergenti, intercettò nel Nord Italia, nei pressi di una masseria. La squadra avrebbe rintracciato il convoglio dell’ex segretario personale di Hitler, composto da una grande automobile nera e due camion con rimorchi. Bell conteggiò in totale 16 uomini di scorta, tre dei quali nella vettura con Bormann: troppi per poterli affrontare in un eventuale scontro. I «commando» inglesi quindi raggiungsero una postazione telefonica per avvisare il proprio quartier generale: «L’ordine del comandante fu: seguitelo, ma non arrestatelo. Ripeto, non arrestatelo». L’inseguimento in auto si snodò per mille chilometri, in due giorni, fino ai moli di Bari. Incredibilmente, ha riferito Bell, l’autocolonna fu lasciata passare a tutti i posti di controllo militari e di polizia.
Dal loro nascondiglio in porto, Bell e i suoi videro le gru sollevare i camion e caricarli su una nave da carico sulla quale Bormann salì da una passerella. Poco dopo il cargo salpò: dalle autorità del porto di Bari le spie inglesi appresero che la destinazione della nave era l’Argentina. «Siamo rimasti traumatizzati - ha detto - dall’ordine di lasciar scappare l’uomo più ricercato del Terzo Reich, sotto i nostri occhi». Nel libro si adombrano complicità fra Vaticano e governo italiano nel lasciar fuggire Bormann, che sarebbe quindi sbarcato a Buenos Aires il 17 maggio seguente, a bordo della nave «Giovanna C» partita da Genova, non si sa se la stessa dell’imbarco a Bari. Gli autori aggiungono che l’ex gerarca nazista era travestito da prete gesuita, con la falsa identità del «reverendo Juan Gomez», con passaporto vaticano. Tramite la Nunziatura apostolica, 5 mesi dopo avrebbe ottenuto la cittadinanza argentina, per entrare poi nell’«orbita» del presidente Juan Domingo Perón (1895-1974). E quei camion? Si parla di un tesoro di migliaia e migliaia di marchi, dollari, sterline e franchi.
Lo «scambio» - Ma perché lasciarsi scappare Bormann? Gli Alleati e soprattutto gli Stati Uniti, ormai in piena Guerra Fredda, avevano bisogno di due «tesori» ereditati dal Terzo Reich finito in pezzi: i nomi degli scienziati più capaci (fra i quali il più famoso è stato Werner von Braun, padre della missilistica che ha tra l’altro portato all’esplorazione dello Spazio) e l’uranio. Bormann avrebbe organizzato una «linea di rifornimento» di queste due preziosissime «materie prime», utili a fronteggiare l’«orso sovietico». In cambio ovviamente di una pena capitale mai eseguita.
I dubbi - Della versione di Bell ha accennato sulle colonne «Gazzetta» lo studioso Pasquale Martino, in una disamina dell’operazione «Ratline», considerandola non sufficientemente provata. Ma le versioni contrastanti sulla vera fine di Bormann e degli altri gerarchi nazisti non fanno che aumentare l’alone di mistero su quegli anni bui.
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