FOGGIA - «Diglielo al padrone tuo: qua comandiamo noi». Nell’ottica accusatoria c’è tutta la protervia e il messaggio mafioso nelle frase pronunciata da Giuseppe Stefano Bruno, 24 anni e dal fratello Roberto di 21 anni, la sera del 20 gennaio 2022 in un bar di Foggia dove rifiutarono di pagare i cocktail ordinati; non è “semplice” arroganza, ma manifestazione della forza intimidatrice della “Società foggiana” da parte dei figli di un elemento di spicco della mafia cittadina. Su questi presupposti il pm della Dda (direzione distrettuale antimafia) Bruna Manganelli ha chiesto la condanna dei due imputati a 4 anni e 2 mesi a testa per estorsione aggravata dalla mafiosità nel processo abbreviato davanti al gup di Bari Paola Angela De Santis; il pm ha chiesto al giudice di concedere agli imputati le attenuanti generiche per l’incensuratezza e per aver risarcito il danno. L’udienza è stata rinviata alle prossime settimane quando sarà emessa la sentenza dopo l’arringa del difensore, l’avvocato Francesco Santangelo: chiederà l’assoluzione dei fratelli Bruno sostenendo che non c’è reato, non c’è minaccia, non c’è alcun atto violento, non c’è richiesta di pizzo, non c’è aggravante mafiosa, si trattò di un unico episodio, furono semplici parole di stizza pronunciate da clienti abituali del locale infastiditi perché il cameriere disse che il bar stava per chiudere vista l’ora tarda.
I fratelli Bruno furono arrestati dai carabinieri del nucleo investigativo il 27 ottobre su ordinanze del gip di Bari: qualche giorno prima di Natale ottennero i domiciliari. Sono figli di Gianfranco Bruno detto “il primitivo”, elemento di spicco della “Società foggiana” vicino al clan Moretti, condannato anche per due agguati collegati a guerre tra clan e di nuovo detenuto da febbraio 2019 quale presunto mandante di tre tentativi di omicidio.
L’accusa si basa su una telefonata del 20 gennaio 2022 tra il titolare del bar e un imprenditore della ristorazione ripetutamente minacciato dal racket e per questo sotto intercettazione. Il barista senza sapere che i carabinieri registravano il colloquio, confidò al conoscente che la sera prima nel locale si erano presentati i fratelli Bruno, pretendendo di bere senza pagare: era terrorizzato, temeva per la propria vita e dei familiari, decise di chiudere pure il locale per qualche ora.
Secondo la Dda si tratta di estorsione per aver costretto la vittima «a somministrare alimenti e bevande senza pagare, con l’obiettivo di imporre la propria presenza mafiosa desumibile dall’affermazione di Roberto Bruno: qua comandiamo noi». E su quel “noi” ha insistito in requisitoria il pm nel chiedere la condanna dei due imputati. La minaccia va cercata – recita il capo d’imputazione – «nel far implicitamente intendere alla vittima per qualità degli imputati, modalità e contesto ambientale che se non avesse soddisfatto le loro richieste, avrebbe subito ritorsioni».
L’estorsione è mafiosa perché dire «qua comandiamo noi» rimanda «a un contesto tipicamente associativo»; in quell’avvertimento, a sentire la tesi dell’accusa, c’è il senso dell’imposizione al barista di sottomettersi per non subire danni al locale; c’è la consapevolezza della vittima di avere di fronte chi fa parte di un gruppo criminale che fa della forza di intimidazione la propria… ragione sociale; c’è il timore e l’omertà della parte offesa che si rivolse – si legge negli atti processuali – a intermediari per risolvere la questione spinosa da sbrogliare in altro modo.