L'analisi

Narrazioni da talk show: la triste cronaca di un pianto continuo

Rosario A. Polizzi e Camilla Sodano

Accendere la televisione o sfogliare un quotidiano, oggi, significa immergersi in un oceano di lamenti

Accendere la televisione o sfogliare un quotidiano, oggi, significa immergersi in un oceano di lamenti. I talk show, pubblici o privati che siano, sembrano ormai tutti uguali: si analizzano disgrazie, si sottolineano errori politici, si evidenzia ciò che va storto - mai ciò che funziona. È come se il nostro Paese, e forse il mondo intero, fosse ridotto a un gigantesco bollettino di crisi. Ogni trasmissione è una celebrazione dell’apocalisse quotidiana: crolli, scandali, guerre di partito e, immancabilmente, il coro di esperti pronti a illustrare - con tabelle, sondaggi e filmati - la fine del mondo in diretta.

Eppure ciò che oggi appare come un disastro senza via d’uscita non nasce certo ieri: è il frutto di decenni di programmazioni sbagliate, di politiche miopi, di una comunicazione che ha imparato a vendere la paura molto meglio della speranza. Da tutto questo nasce la sensazione che non ci sia più nulla da salvare. Non sarebbe male, ogni tanto, trovare - anche solo in superficie - un piccolo germe di ottimismo, un’idea che faccia intravedere un mondo migliore. Ma niente: né nei talk show né nei quotidiani sembra esserci spazio per un barlume di positività. Solo catastrofi, sondaggi al ribasso e immagini di disastri.

Naturalmente, per raccontare con tanto pathos il declino, servono professionisti del «pianto»: esperti del dramma e interlocutori già allenati a nutrirsi di disgrazie. La scena è sempre la stessa: ospiti che si accavallano, toni accesi, sguardi cupi. E se per caso si parla dei giovani, la risposta è pronta: «Tanto loro la televisione non la guardano». E in effetti i giovani lo dicono chiaro - tra un match di calcio e un torneo di tennis - che della TV tradizionale non sanno che farsene. I giornali? Solo sportivi o di moda, a seconda dell’umore. Nel frattempo, la ripetizione delle frasi rituali continua: «Il leader storico della sinistra...», «la deriva della destra...», «il Paese allo sbando...». Poi arrivano i predicozzi di un direttore «sorridente» e dei suoi editorialisti, seguiti dai professori del disincanto, che calano assi neri sul tavolo della disperazione, con l’aria di veggenti del declino, intenti a sottolineare il pessimismo diffuso ovunque. Tutto, sia chiaro, sempre con rigorosa professionalità. Ma resta la domanda: dopo di loro, quale futuro ci aspetta? Difficile dirlo. Come scriveva qualcuno, «non vedo aquile»: solo tristi pipistrelli che volteggiano attorno, alimentati da un cupo gusto per la tragedia. Iene e sciacalli del dolore mediatico.

Eppure, paradossalmente, la loro funzione è preziosa. Perché quando finalmente si decide di spegnere la TV o chiudere il giornale, ci si accorge che il mondo, là fuori, non è poi così disperato. C’è vita, movimento, perfino qualche sorriso. Ed è allora che si scopre una grande verità: più che informare, certe reti e certi giornali sembrano «zone del pianto», luoghi dove si va a esercitare il pessimismo.

Ma smettere di seguirli è, spesso, il primo passo per tornare a respirare e rifornirsi di sano ottimismo. Perché soltanto così - con uno sguardo meno cupo e più fiducioso - potremo gettare le basi di quel futuro che, tra dieci o quindici anni, farà sorridere i contemporanei del 2035 o del 2045, ripensando a questo nostro triste medioevo mediatico. Beh, concludendo: ma c’è ancora domani!

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