Sul fine vita vince la guerra di parole, la «logomachia». La Corte costituzionale ha parlato ancora una volta, ma i cittadini attendono e i politici si esercitano nel simulare la serietà. Discutono. Consultano. Rinviano. L’unica cosa che non fanno è votare. Troppo divisivo. Una formula elegante per giustificare la diserzione. Ma cosa resta della politica se privata del dividersi e contarsi, per scegliere tra diverse scelte e senza usare le armi da fuoco?
La storia più recente comincia nel 2018. La Corte costituzionale ebbe a decidere una questione sull’art. 580 del codice penale, che punisce l’aiuto al suicidio. L’occasione era seria e il caso drammatico. La Corte, nelle vesti di «madre» costituente, non sentenziò, invitando il Parlamento a legiferare in fretta. Un atto di fiducia. Un invito garbato che il Parlamento non accolse.
Così, nel 2019 arrivò la sentenza 242. Fu una lezione di diritto costituzionale in quattro atti: (1) patologia irreversibile; (2) soggezione a trattamenti sanitari vitali; (3) sofferenza intollerabile; (4) lucidità decisionale. In presenza di questi casi, aiutare a morire non è reato. È diritto, garantito, vigente e con procedure chiare: nelle strutture del servizio sanitario pubblico e con parere del comitato etico. Non dunque eutanasia da supermercato svizzero, come da dicerie, ma diritto costituzionale ampiamente sorvegliato.
Ma molti politici non leggono le sentenze. Le interpretano, leggendo i loro segni con l’ardore di un indovino disoccupato. E da allora abbiamo avuto il nulla, in tutte le sue forme: inerzia, silenzio, conferenze stampa e audizioni inconcludenti. Intanto, le Regioni - quelle meno intimidite - cercano di tradurre il diritto in procedura. Ma anche lì, chi osa applicare la sentenza, rischia il ricorso. L’Italia è il Paese in cui la legalità costituzionale, soprattutto quella delle prescrizioni impegnative, è tollerata solo se non operativa.
Il punto debole? La coscienza e i suoi morsi, che si fanno sentire più forti solo quando a farne le spese sono gli altri. La coscienza. È una parola inappellabile, arbitraria e convenientemente ambigua. Un atout, una carta di briscola: basta pronunciarla e si vince la mano.
Ma la coscienza è un’istanza personale, non un marchingegno per sabotare i diritti altrui. Nessun politico è obbligato ad avvalersi di diritti disponibili, ma ha il dovere di garantirli con il proprio voto quando ha l’onore di sedere nel luogo in cui lo Stato decide.
Nel frattempo, la Corte ha continuato su quella scia, senza tentennamenti o marce indietro. Nel 2024, sentenza 135, confermando tutto. Nell’ultima sentenza di qualche giorno fa, la 66, ribadendo tutto. La giurisprudenza è chiara, ferma e sobria. È il Paese che va in confusione. Perché la legge statale non arriva e chi dovrebbe applicare quella già scritta della Corte costituzionale resta lì, a farsi condizionare dal rumore delle parole e a chiedersi se può o cosa rischia.
Eppure sono secoli che sentiamo l’avvertimento proclamato dai pulpiti: «Si evitino le vane discussioni, le quali non giovano a nulla se non alla rovina di chi le ascolta» (2Tm 2,14).
Il punto è semplice. Non si chiede allo Stato di promuovere la morte. Si chiede di accompagnare chi, nel pieno delle sue facoltà, decide di non soffrire oltre. Non è abbandono, è rispetto. Non è resa, è libertà. Non è una cultura della morte, è una cultura del limite. E anche della compassione.
E a chi ostacola tutto questo dichiarandosi dotato di un superlativo sentimento religioso, apra le pagine di Jürgen Moltmann, per accorgersi che il cuore della speranza e della fede consiste nel fatto che nella fine c’è l’inizio. Se la morte è passaggio, allora accompagnare alla morte chi, attraverso la sofferenza irreversibile, ha perso la dignità del vivere non è tradire la vita, ma rispettarne il compimento.
Non si trattano questi argomenti con la prudenza del cerimoniale, quella che si esercita quando il rischio è minimo, ossia cioè quando a morire sono gli altri. Così facendo, il Parlamento diventa l’unico luogo dove il dolore non entra mai in Aula, perché troppo emotivo e troppo concreto.
La logomachia deve finire. È tempo di fare o almeno smettere di fingere che non ci sia nulla da fare. Il diritto alla vita include anche, sempre, il diritto alla fine. E la speranza di poterla farla finita quando la perdita di dignità contraddice la vita, ha bisogno di non essere umiliata proprio all’ultimo respiro.