Sabato 06 Settembre 2025 | 20:43

Puglia e salario minimo: la nuova legge regionale è una «scelta positiva»

 
Marco Barbieri e Roberto Voza

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Marco Barbieri e Roberto Voza

Puglia e salario minimo: la nuova legge regionale è una «scelta positiva»

Nel modello di regolazione del salario minimo, nel quale si impone - in primo luogo - l’applicazione del contratto collettivo «vero» (non quello chiamato «pirata», perché firmato da organizzazioni minoritarie e proteso al ribasso), non c’è alcun indebolimento del ruolo di autorità salariale della contrattazione: anzi, c’è un rafforzamento di quest’ultima

Mercoledì 04 Dicembre 2024, 13:11

La legge regionale 21 novembre 2024, n. 30 impegna la Regione Puglia (e gli enti strumentali, come - ad esempio - le aziende sanitarie) ad esigere nelle procedure di gara per appalti pubblici e concessioni l’obbligo di applicare ai dipendenti delle imprese aggiudicatarie condizioni non inferiori a quelle fissate nel contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative e - comunque - un trattamento economico minimo inderogabile pari a nove euro l’ora.

Si tratta di una scelta positiva, che tuttavia sta incontrando anche qualche critica e perplessità. Concordiamo con l’opportunità di un maggiore confronto con le organizzazioni sindacali e datoriali, ma troviamo infondate le critiche di merito.

Nel modello di regolazione del salario minimo, nel quale si impone - in primo luogo - l’applicazione del contratto collettivo «vero» (non quello chiamato «pirata», perché firmato da organizzazioni minoritarie e proteso al ribasso), non c’è alcun indebolimento del ruolo di autorità salariale della contrattazione: anzi, c’è un rafforzamento di quest’ultima.

In secondo luogo, non c’è ragione di lamentare la previsione di un minimo di nove euro l’ora: sappiamo come, proprio nei servizi dati in appalto dalle amministrazioni pubbliche, i minimi siano, in alcuni casi, inferiori a quella soglia. Anzi, è bene ricordare che a luglio dello scorso anno la Fondazione studi dei Consulenti del lavoro stimava che in 22 contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali più rappresentative, la retribuzione oraria era inferiore a 9 euro lordi (e le stime potrebbero essere superiori, a seconda della nozione di retribuzione che si adotta).

Le critiche si sono poi appuntate sulla mancata indicazione (nella legge regionale) degli elementi che compongono il trattamento minimo. È ben noto che il trattamento economico minimo è stato definito proprio dalle organizzazioni sindacali con la Confindustria nell’accordo interconfederale del 9 marzo 2018, che indirizza i contratti collettivi nazionali a definire il Trattamento Economico Minimo. La legge regionale non avrebbe potuto fornire una propria definizione di trattamento economico minimo senza invadere la funzione della contrattazione collettiva: il che sembra essere - in parte - avvenuto con la modifica approvata il 28 novembre dall’art. 21 della legge di bilancio, ove si parla di «retribuzione minima tabellare». Peraltro, il riferimento al trattamento economico minimo nel determinare la retribuzione, che permetta un’esistenza libera e dignitosa, è sancito pure nelle sentenze della Corte di cassazione dell’ottobre 2023, le quali hanno escluso da tale minimo gli elementi eventuali e variabili della retribuzione (come, per esempio, il compenso per lavoro straordinario).

Peraltro, quanto previsto nella citata legge regionale non è diverso da quello che stanno prevedendo una serie di Amministrazioni comunali (tra cui Napoli, Firenze, Foggia e, forse, prossimamente Bari): nell’esercizio della propria potestà organizzativa esse fissano ex ante (come requisito di accesso alla gara), il minimo retributivo nella misura prevista dalla contrattazione collettiva e, comunque, in quella di (almeno) nove euro l’ora. Attraverso simili previsioni, le autonomie locali non disciplinano il rapporto di lavoro, che spetta al legislatore statale, ma le condizioni tecniche delle proprie gare di appalto, avendo il dovere di attuare anche in quest’ambito la previsione costituzionale della retribuzione sufficiente. Del resto, ciò serve ad evitare che le imprese che pagano una retribuzione sufficiente, e quindi hanno un costo del lavoro più alto, perdano le gare e ricorrano contro un’aggiudicazione ad altra impresa che - viceversa - lede il precetto costituzionale.

Dal punto di vista del diritto dell’Unione europea, l’art. 26 della Direttiva 2004/18/CE prevedeva che «le amministrazioni aggiudicatrici possono esigere condizioni particolari in merito all’esecuzione dell’appalto purché siano compatibili con il diritto comunitario e siano precisate nel bando di gara o nel capitolato d’oneri. Le condizioni di esecuzione di un appalto possono basarsi in particolare su considerazioni sociali e ambientali».

A tal proposito, la Corte di Giustizia dell’Unione (sentenza 17.11.2015, C-115/14) ha ritenuto legittima una normativa regionale, che imponeva agli offerenti e ai loro subappaltatori di impegnarsi, mediante una dichiarazione scritta che deve essere allegata alla loro offerta, a versare un salario minimo al personale che sarà assegnato all’esecuzione delle prestazioni oggetto dell’appalto pubblico considerato.

Infine, l’affermazione secondo cui la povertà lavorativa non dipende solo da retribuzioni orarie insufficienti ma anche dal numero complessivo di ore lavorate, è del tutto condivisibile, ma ciò non toglie che - se si può intervenire concretamente su almeno uno dei fattori che determinano il lavoro povero - sia bene farlo.

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