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Altro che mondo «global»: in politica irrompe il caro, vecchio campanile

 
Enzo Verrengia

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Enzo Verrengia

Autonomia differenziata e credito di imposta: colpi al cuore del Sud

L’interesse territoriale finisce per prevalere sulle dinamiche allargate del mondo post-moderno, dove il glocal diviene un fattore disaggregante

Mercoledì 27 Novembre 2024, 13:17

In politica irrompe il campanile. L’interesse territoriale finisce per prevalere sulle dinamiche allargate del mondo post-moderno, dove il glocal diviene un fattore disaggregante. Fra le cause dell’invasione russa in Ucraina conta non poco la questione degli «oblast», le province, a prevalenza russofona, già al centro di crisi interne e picchi di irredentismo violento.

Sono molte le varianti con le quali si tramanda l’adagio di Massimo D’Azeglio: «Abbiamo fatto l’Italia ora dobbiamo fare gli italiani». Questo compito non è mai stato assolto dalle classi politiche succedutesi ai vertici del Paese dall’unità in poi. Neanche con l’interclassismo dell’egemonia democristiana, per quanto lo scudo crociato, malgrado le diverse provenienze regionali dei suoi principali leader, non avesse mai perduto una compattezza omnicomprensiva che diede origine alla definizione di «balena bianca».

In realtà, all’interno del maggiore partito nazionale vigevano conglomerati riferibili ad aree precise, perfino in correnti diverse. Si pensi ai veneti di Bisaglia, agli aretini di Fanfani, alla Milano da bere di Craxi e, per giungere a queste latitudini, ai foggiani di Russo e ai baresi di Lattanzio. Una sfilata di figure preminenti, significative, storiche e di portata più ampia dei luoghi di formazione, eppure a questi legatissimi.

La loro eredità si ritrova anche dopo il passaggio dalla prima alla seconda (e alla terza?) repubblica. E la si è avvertita anche nella recente scelta di uno dei due vicepresidenti esecutivi della commissione europea. In Puglia si è respirata un’aria di comprensibile entusiasmo per il candidato poi assurto a una carica tutt’altro che meramente rappresentativa. Le vicissitudini cui ha assistito la gente hanno assunto fin dall’inizio una caratteristica inequivocabile. Mentre sulle piattaforme esterne, quella nazionale e quella europea, si manteneva la linea di contrapposizione tra maggioranza e opposizione, in Puglia prevaleva un atteggiamento bipartisan, determinato dal favore diffuso per un ministro di cui si conosce il radicamento. Per una volta sono caduti anche i distinguo dei salentini.

È la democrazia, bellezza. Ossia la libertà di riconoscersi e disconoscersi fuori dagli schemi obbligati degli schieramenti preconfezionati. Sul territorio si perdono le coordinate dei bacini elettorali in competizione.

Solo analizzando questo tratto antropologico si può capire come l’umanità di tutti i tempi non assumerà mai un’unica conformazione planetaria. Il campanile troneggia anche dove non esiste in forma architettonica. Qualcuno potrebbe parlare di spirito della tribù, ma sarebbe riduttivo. Piuttosto verrebbe da proporre un neologismo: sindrome di Cincinnato. Nella mente compare Di Pietro, a Montenero di Bisaccia. L’individuo che dopo la gloria rifugge le lusinghe profane e torna ai suoi campi natii. Se non fosse che la politica del campanile, nella società interconnessa, non consente il distacco da quello che c’è oltre le colline. Anzi, può diventare occasione di un nuovo impegno. Allora bisognerebbe dire sindrome dell’anti-Cincinnato.

Tutto questo, però, sembra accantonare una questione cruciale. Il leghismo, che non è soltanto un fenomeno nazionale. Si pensi alla Generalitat de Catalunya, all’Irlanda del Nord, al separatismo scozzese, alla suddivisione de facto del Belgio. Esempi di un trend niente affatto epocale, bensì secolare e talvolta millenario. Tanto che alla metà degli anni ‘80, quando il Muro di Berlino non era ancora crollato e Gorbaciov non ascendeva ancora agli onori del Novecento per avere frammentato e liquidata l’Unione Sovietica, ma già maturavano gli umori popolari da cui sarebbe scaturita la sanguinosa tragedia balcanica, Gianni De Michelis ebbe a dichiarare: «Quando sento parlare di autodeterminazione dei popoli, ho paura».

Lo fece dinanzi alla tribuna più efficace per far passare una simile considerazione: «Pronto, Raffaella». Il pubblico rilassato del mezzogiorno vedeva aprirsi un squarcio di preoccupante contemporaneità. De Michelis era Ministro degli Esteri, e non lo si poteva ridurre a frequentatore di discoteche. La sua visione lucida e premonitrice avrebbe dovuto interessare di più giornalisti e opinion makers, già votati al gossip nella stagione del Riflusso. Soprattutto perché nella nascente autodeterminazione dei popoli albergava il germe del sovranismo, che allarga la politica del campanile a potenzialità conflittuali e non favorisce la pura e semplice unione del popoli sotto l’egida della pace.

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