Il commento

Pensare come l’altro per aggirare la retorica del buonismo

Lisa Ginzburg

Non guardo spesso la televisione ma per caso, sere fa, mi sono imbattuta in un programma che ho guardato con immediato e progressivo interesse. Era una puntata di «Che ci faccio qui?» condotto da Domenico Iannacone

Non guardo spesso la televisione ma per caso, sere fa, mi sono imbattuta in un programma che ho guardato con immediato e progressivo interesse. Era una puntata di «Che ci faccio qui?» condotto da Domenico Iannacone. Il giornalista intervistava un immigrato, un uomo originario del Senegal che vive vicino a Rosarno, in Calabria. Un uomo che vive in grande indigenza e povertà, con pochissimo, attorno davvero pochissime cose, tranne, in una stanza dalle pareti tanto sottili da doversi dire piuttosto una baracca, ammonticchiati ovunque libri e giornali che lui legge quando può e come può. L’amore per la lettura lo sostiene, nel tentativo di affrontare al meglio lo scorrere del tempo. Iannacone, il giornalista autore del programma, si rivolgeva a quell’uomo in un tono che mi ha colpito – di lì il mio progressivo interesse. Perché era un tono rispettoso ma non retorico: attento all’interlocutore e a mostrare tutte le difficoltà del suo vivere quotidiano, tanto quanto vigile e scrupoloso nell’evitare la retorica. Già, lo spettro di ogni confronto empatico con chi ha meno, molto meno di noi, è appunto la retorica (da alcuni, con un termine che non amo, definita come «buonismo»). Nel tentativo di puntare il dito su patenti ingiustizie umane e sociali, si finisce con il perdere di vista una parità che invece è di ogni interazione (quella parità che il giornalista, con equilibrio e sensibilità, teneva presente).

Come aggirarla la retorica nella considerazione di chi è straniero, di chi vive in condizioni ben più difficili delle nostre, di chi è immigrato, o profugo, di chi da straniero conosce discriminazione, esclusione, l’offesa di una vita non degna? Un modo può essere mettersi negli occhi di quell’altro. Pensare a come sente e vive lo scambio con noi. Quando vivevo in Francia, affisso nella bacheca di una scuola elementare un giorno ho visto un disegno fatto da un bambino cui era stato chiesto di commentare il tema della diversità. Aveva scelto di raffigurare due persone, poste l’una di fronte all’altra, e in un fumetto sull’alto della pagina aveva scritto: «Per lui, l’altro sei tu». Non ho mai dimenticato quel disegno, e quanto mi ha insegnato.

«Per lui, l’altro sei tu» vuol dire tra le altre cose mettersi nei panni altrui, porsi dal suo punto di vista. Capire che esiste un sentimento di estraneità mescolato a uno di appartenenza: un ibrido che ci accomuna, tutti. Estraneità e appartenenza agli altri, estraneità e appartenenza ai luoghi in cui ci troviamo, dove transitiamo. Lo racconta un film della regista Cristina Mantis (presentato all’ultima edizione del Bifest di Bari) dal titolo Kalavrìa, che ho avuto occasione di vedere pochi giorni dopo avere assistito per caso al programma televisivo di Iannacone. Dedicato alla Calabria – raccontata attraverso immagini molto poetiche e paesaggi mozzafiato – il film ha per protagonista un Ulisse contemporaneo (interpretato dall’attore Ivan Franek) che naufragato su una spiaggia calabrese incontra degli abitanti locali, e con loro intesse brevi, intense conversazioni e relazioni. Guardando il film pensavo a come tutto (per tutti) sia nostalgia. Una nostalgia che scaturisce da sradicamento e da radice insieme, una nostalgia che coincide con un sentirsi spaesati e al tempo stesso assolutamente a casa nel mondo.

Altro protagonista del film Kalavrìa è un uomo originario del Senegal (Badara Seck, “griot” ovvero cantastorie, da molti anni residente in Italia), il quale compie un viaggio di esplorazione che è anche una sorta di pellegrinaggio spirituale. Raggiunge sull’Aspromonte il villaggio di Africo e giunto là, in preda a un’emozione contagiosa per lo spettatore, a squarciagola, con la sua potentissima voce, canta il sentimento che gli abita il cuore: quello di possedere radici disseminate, diffuse, in qualche modo universali. Il film parla di Magna Grecia, di Africa, e di un’italianità nata da scissioni dolorose tra nord e sud. Dicendoci così, di nuovo, come ci accomuni tutti, indiscriminatamente, un senso di “casa”, qualcosa da coltivare dentro, ben prima che fuori di noi. Così come ci accomuna una instabilità fatta di memoria e di oblìo, amalgamati insieme da un’alchimia necessaria quanto difficile da sostenere. Proprio dalla consapevolezza di quella instabilità, fattore esistenziale che ci vede tutti uguali – non c’è verso – diviene possibile quel porsi negli occhi dell’altro, quel “per lui, l’altro sei tu” che cambierebbe e cambia ogni traiettoria umana, nel senso di ogni direzione di interazione tra le persone. Siamo noi, e insieme siamo gli altrui sguardi posati su di noi. Siamo le nostre radici, e insieme siamo altre radici, disseminate, che sottotraccia, come rizomi, nostro malgrado moltiplicano le nostre appartenenze. Pensarlo, o già solo immaginarlo, cambierebbe e cambia tutto.

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