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Il «piccone» di Don Ciotti sull’altare a Calimera col berretto di Montinaro

Il «piccone» di Don Ciotti sull’altare a Calimera col berretto di Montinaro

 
Fabiana Pacella

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Fabiana Pacella

Il «piccone» di Don Ciotti sull’altare a Calimera col berretto di Montinaro

Un prete di strada che indossa il berretto di un poliziotto ucciso dalla mafia, la musica che placa e agita i pensieri, un mucchio di estranei che diventa famiglia

Lunedì 27 Maggio 2024, 13:55

La simbologia del bene. Il piccone della cultura. La necessità della memoria collettiva.

Un prete di strada che indossa il berretto di un poliziotto ucciso dalla mafia, la musica che placa e agita i pensieri, un mucchio di estranei che diventa famiglia.

L’antimafia sociale è questo. Fuor di chiacchiera, lungi da palchi malfermi, protetti da riflettori che sfocano l’obiettivo reale.

Don Ciotti ha indossato il berretto di Antonio Montinaro, caposcorta di Falcone caduto a Capaci 32 anni fa, sull’altare della chiesa Madonna della Fiducia di Calimera – dove Antonio è nato e cresciuto – per infondere una benedizione speciale, a chi abita dimensioni altre, a chi è rimasto e porta la spina nel fianco della memoria e dell’impegno e a chi sceglie di non tacere e fare la sua parte senza bisogno di coinvolgimenti diretti. Bungaro e Raffaele Casarano dal pulpito hanno interpretato Io non ho paura e Guardastelle, per Antonio, i suoi compagni di destino, le vittime innocenti di mafia e la gente che non si volta dall’altra parte né abbassa la testa ma anzi rivendica il suo diritto di essere perbene. Eccola la famiglia per caso e l’impegno per scelta.

Né dramma né commedia, ma verità.

Quella che tanti chiedono ma ai più fa paura perché costa fatica e responsabilità, nemici e scelte drastiche.

Il palco della vita, a Calimera, ha accolto i battiti di un momento di verità necessaria e collettiva, guardando dritto negli occhi Tilde sorella di Antonio e i familiari di Angelica Pirtoli, Renata Fonte, Michele Fazio vittime di mafia pugliesi, lo Stato migliore con toghe e divise, i bambini coi loro animi intonsi e i cittadini comuni con le loro storie minime di soldati impavidi di una guerra altra.

Combattuta con coscienza civile e spina dorsale tesa.

C’è differenza tra chiacchiera e parola, riflettori e riflessioni.

Calimera lo ha confermato, scrivendo una pagina di dignità da tenere da conto.

La parola «mafia» con tutta la sua sostanza è riecheggiata più volte in quella chiesa. Per necessità.

La necessità di andare a fondo, togliere la polvere da sotto il tappeto, sentire il peso della violenza e del male, le brutture di due sillabe che hanno cambiato e segnato la storia del nostro Paese per 170 anni e tuttora ne minano la tenuta stabile.

«La democrazia nel nostro Paese è pavida, non abbiamo ancora preso piena coscienza della peste mafiosa e della peste corruttiva. I neutrali, quelli che stanno nel mezzo, sono il pericolo dei nostri tempi», ha ripetuto don Ciotti col suo berretto da poliziotto.

Un’altra parola invece non s’è sentita quasi per niente: antimafia. Termine abusato, gallone a tempo in tempi di neutrali a ufa.

L’antimafia di fatto non si dice, si fa. È normalità, scelta di vita, strada quotidiana, spesso in salita e piena di curve a gomito, da percorrere a piedi per no uscire fuoristrada. Talmente bella che va custodita dentro, nell’animo, e condivisa proprio come accaduto in quella chiesa del profondo Salento due sere fa.

E va cantata, l’antimafia così come si canta la vita. Così il manifesto che le appartiene resta nell’aria, tra la gente, e non rischia di mutare in un cartellone stracciato su una parete di fortuna.

L’antimafia non ha dimensione finita, guarda oltre, come canta Bungaro:

«Da qui, mi stacco da terra ad immaginare/ da qui, chissà se c’è un mistero grande da scoprire/ da qui, una libera preghiera per una pace da inventare/ ho fantasia e posso anche volare. guardastelle, guarda, in questo mare di stelle/ guardastelle, guarda, è un cielo di fiammelle».

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