La violenza è il richiamo involutivo che manifesta l’assenza di strumenti evoluti nella gestione delle proprie difese agli stimoli (percepiti come minaccia) interni ed esterni. Sui fatti di Pisa e le Manganellate ai ragazzi, i professori implorano i poliziotti: «Hanno solo 15 anni, non sono pericolosi». Si legge nei post social dei manifestanti: «Ma come faranno i poliziotti a tornare a casa e guardare in faccia i propri figli?»
Eh bene, questi stessi uomini, hanno verso i propri figli l’educazione autoritaria che mette le regole non a servizio del bene personale e collettivo, ma come principio assoluto, che regola e governa le relazioni, come fossero un codice anaffettivo e spersonalizzante, privo di soggettività e di rispetto della persona. È l’educazione al sistema istituzionalizzato, che si muove sulla norma e sulla paura verso l’autorità, che minaccia, prevarica, sopraffà, per mantenere un ordine prestabilito, che teme il cambiamento, il dialogo, la relazione come strumento di evoluzione e di armonia del sistema complesso.
Ecco a cosa ci si riferisce quando si fa richiamo all’educazione all’affettività. Un’educazione che passa attraverso il riconoscimento della diversità, del rispetto della persona e dei suoi diritti e bisogni. Una capacità di essere consapevoli delle proprie emozioni e sentimenti, dei propri comportamenti, che derivano da valori e scelte di vita che devono rispecchiare congruenza in tutti i campi. Si tratta di non percepire l’altro come un oggetto su cui esercitare un potere (lo status del genitore), a causa della paura e del contrasto che pone, ma come un altro soggetto in una relazione d’amore, di affetto, di presenza psicologica, che coinvolge l’intelligenza emotiva e la cura rispetto ai bisogni di crescita dei figli, creando qualità di vita, fungendo da riferimento affettivo e da modello di adulto.
Diversamente in un sistema precostituito e stabile di regole assolute, applicate indistintamente dai bisogni individuali e di relazione, le relazioni rispondono ad un sistema rigido simile ad un’organizzazione militare, una vita da caserma più che un ambiente armonioso fondato sull’amore e sull’affetto reciproco, quale una famiglia dovrebbe essere.
Dietro questi comportamenti autocratici, autoreferenziali e intransigenti, c’è un evidente disagio degli stessi soggetti che li attuano e che li hanno subìti, continuando ad autoimporseli richiamando continuamente a sé uno schema ripetitivo che anche se li nuoce, li fa sentire sicuri, poiché in un ambiente psicologico conosciuto e difensivo (disfunzionale). Come una forma di condizionamento e di richiamo verso il conosciuto, ritornando agli stadi di vita primitivi i soggetti cercano stabilità, ordine e sicurezza, in contrapposizione alla instabilità e alla vulnerabilità che richiede il coraggio di mettersi in discussione, di cercare nuove strade evolute, di cambiare ed evolversi. Due spinte, spesso inconsce, che possono essere equilibrate attraverso strumenti psicologici, in virtù del benessere personale, di gruppo e sociale.