Qual è lo stato di salute della democrazia nel mondo all’altezza del 2023? A chiusura d’anno la sagra dei bilanci, che imperversa in ogni anfratto dello scibile umano (ed umanoide, da che l’intelligenza artificiale ha preso piede), è un passaggio obbligato per il curioso d’informazioni. Talvolta s’inciampa in dati trascurabili, a filo di gossip o giù di lì. Ma spesso, soprattutto se le fonti sono attendibili, le statistiche fanno sintesi di fenomeni che a raccontarli s’impiegherebbero paginate. L’agenzia indipendente Freedom House, fondata nel 1941 da un gruppo di intellettuali americani (tra cui Eleanor Roosevelt) attivi nella diffusione dei principi democratici, pubblica ogni anno un rapporto dal titolo «Freedom in the world» (Libertà nel mondo) che intende valutare, attraverso parametri significativi, il grado di libertà civili e diritti politici nei diversi Paesi del pianeta.
Secondo la Freedom House il 2023 fa registrare, per il diciassettesimo anno consecutivo, un declino delle democrazie a fronte dell’avanzata delle autarchie e dei totalitarismi. La cosa appare grave per due ragioni: la prima è che a perdere posizioni in classifica - soprattutto per indebolimento delle garanzie riferite ai diritti politici e alle libertà civili - sono anche i Paesi che possono vantare una democrazia consolidata e non soltanto quelli che ci arrivano adesso, manifestando il cosiddetto riflusso democratico, abbastanza naturale e noto ai politologi.
Ma è la seconda ragione che inquieta ancora di più: il diciassettennio di illanguidimento delle democrazie somiglia sinistramente al periodo tra il 1926 e il 1943 che segnò l’affermazione e il consolidamento delle dittature che portarono alla seconda guerra mondiale. Naturalmente il paragone è portato con la consapevolezza dei contesti diversi e (auspicabilmente) anche dei differenti esiti. Tuttavia la preoccupazione resta, anche perché il rating di Freedom House si sovrappone perfettamente a quello di altre agenzie indipendenti, come l’International Institute for Democracy and Electoral Assistance - Idea, secondo cui la democrazia sta attraversando la recessione più lunga che l’organizzazione abbia mai registrato (cioè dal 1975), o l’«Economist», secondo cui, addirittura, le democrazie «piene» nel mondo riguarderebbero solo 24 Stati sovrani su 167 (ma secondo i rigorosi parametri della testata britannica persino l’Italia si collocherebbe in un’area di «democrazia imperfetta»).
Su un punto tutte le analisi concordano: l’erosione continua dei regimi democratici nel mondo che in un ventennio ha portato le «non democrazie» globali al 60 per cento, mentre il 20 % di popolazione che ieri viveva in democrazia oggi vive in regimi autoritari o totalitari. Non appaia, allora, così strano che le guerre tornino ad infestare aree del mondo che ne sembravano immuni perché propense a risolvere le divergenze attraverso la politica: se al comando di uno Stato è un dittatore o un autocrate, il popolo - che non è di suo mai propenso alle guerre - non può che subire.
Ma, se l’avanzata delle «non democrazie» preoccupa, non ci lascia poi così sereni la tenuta delle «nostre» democrazie. Spaventa la crisi della rappresentanza, generata dalla «filosofia della disintermediazione» che alligna nell’uso compulsivo dei social e nell’egemonia assoluta dello smartphone, del virtuale al posto del reale. Spaventa l’abbassamento della qualità delle classi dirigenti politiche causata dalla fine dei partiti; preoccupa la crisi dei parlamenti e la tendenza cesaristica che si manifesta nei governi. Ci intristisce la fuga dalle urne dei cittadini, l’opacità di un dibattito pubblico banalizzato in uno schema di conflitto continuo tra aut e aut. Ci fa pensare l’intrinseca antidemocraticità delle leggi elettorali che rubano al cittadino il diritto di scegliere il proprio candidato nel silenzio dei media.
Ecco: qualcosa potremmo fare per la democrazia, riprendendo un dibattito pubblico sulle cose che contano. Perché la nostra democrazia ha la febbre, che forse non è quella brutta del maledetto covid 2020, ma si sa che anche un raffreddore mal curato può sempre degenerare.