La lunga vicenda dell’approvazione della manovra finanziaria insegna due cose relativamente alla linea di politica economica di questo Governo.
In primo luogo, i saldi prospettati (in particolare, le variazioni della spesa pubblica) rendono evidente che il recente passato antieuropeista di Fratelli d’Italia incide notevolmente, e con segno negativo, sulle scelte di politica economica di questo Governo, limitando la possibilità di realizzare manovre espansive. Ci si riferisce al fatto che, per accreditarsi in sede europea, in un contesto di revisione del Patto di Stabilità e Crescita nella direzione del ritorno all’austerità, il Governo Meloni deve mostrarsi più austero della gran parte dei Paesi dell’Eurozona e più austero dei suoi predecessori, per acquisire reputazione agli occhi della commissione europea.
Non si spiegherebbero diversamente i principali numeri della manovra, peraltro in linea con quella dello scorso anno, fra i quali quello maggiormente in evidenza riguarda la riduzione solo temporanea - e non strutturale, come promesso - del cuneo fiscale.
Data l’esiguità dello spazio fiscale disponibile, le principali promesse della maggioranza che regge questo esecutivo sono ancora una volta non realizzate e rinviate sine die, con l’aggravante di indurre a mettere in atto provvedimenti decisamente impopolari, quali la soppressione del fondo per le invalidità e il ripristino delle clausole Iva sui prodotti per l’infanzia. Il Governo è dentro un doppio vincolo, dal quale sembra difficile venir fuori: quello delle promesse fatte e quello esterno, europeo in particolare.
Riguardo al primo, va considerato che solo pochi anni fa Giorgia Meloni fondava l’esistenza di Fratelli d’Italia sul rifiuto di questa Europa e della stessa moneta comune. La Destra italiana si dichiarava a favore del ritorno alla lira, teorizzando che questo passaggio avrebbe consentito il recupero di competitività, via svalutazione, delle nostre produzioni, con effetti positivi sulle esportazioni. Per arrivare al Governo, queste tesi sono state silenziate e sostituite, peraltro in tempi rapidissimi, con il pieno sostegno all’Ume e alla valuta comune.
C’è poi una seconda chiave interpretativa relativa all’iter di approvazione della manovra. Si ricordi che fu Einaudi a raccomandare che ogni nuovo impegno di spesa fosse coperto adeguatamente in sede di programmazione economica. Lo scenario delineatosi nei giorni scorsi è, per contro, la negazione di questo principio ed è una sorta di disordinato assalto alla diligenza: ministri e parlamentari si sentono legittimati a rivendicare ulteriori spese - anche microsettoriali o di carattere meramente locale - senza sentirsi in dovere di individuare le necessarie coperture. Le frequenti revisioni delle bozze della manovra dipendono soprattutto dalla scarsa capacità dell’esecutivo di gestire le numerose domande di emendamenti e cambiamenti.
Al netto delle variazioni (marginali) che verranno introdotte, ciò che balza agli occhi - peraltro in linea con la manovra dello scorso anno - è la totale assenza di una visione sulle prospettive di crescita dell’economia italiana. La crescita è sostanzialmente demandata alla speranza di un aumento di consumi e investimenti derivante dalla riduzione del cuneo fiscale. Ma su questo effetto si possono nutrire dubbi. Innanzitutto, il cuneo fiscale in Italia è alto ma non in modo abnorme ed esistono Paesi (per esempio, Belgio e Germania) con una tassazione sul lavoro molto alta, ma con tassi di crescita più elevati del nostro. In secondo luogo, sono almeno venti anni che in Italia si prova a ridurre il cuneo fiscale (a partire dal Governo Prodi), ma senza effetti. Infine, il fatto che la riduzione sia temporanea si imbatte nel problema dell’incertezza, rendendo verosimile un aumento irrilevante o nullo dei consumi se la prospettiva delle famiglie è un futuro incremento della tassazione.
Si consideri che la manovra scontenta anche Confindustria, che lamenta il mancato incremento di sgravi fiscali e agevolazioni: nelle ultime bozze circolate, solo l’8% delle nuove spese - secondo Carlo Bonomi - riguarda provvedimenti a favore delle imprese. Non vi è da stupirsi, quindi, se la previsione di crescita per il prossimo anno è del solo 1.2%, contro una media europea (Italia esclusa) del 2.3%.