Ricevo, dai misteriosi gironi dell’informatica i versi che seguono provenienti da una plaga purgatoriale e il mittente non si firma, ma non può, per me, restare anonimo, per me che ho letto «La Divina Commedia». Quel «Ahi» dell’incipit ci allarma per energia espressiva e si affaccia su una delle più vaste, cruciali e memorabili allocuzioni dell’opera. È recitata con comiziante emozione in una cornice della montagna altera che era stata inesplorabile da quell’anticipatore inconsapevole della realtà globale e dal progetto cosmico di Dio, quell’Ulisse beatamente spaesato che spinge sé stesso e la ciurma di potenziali svogliati a «seguire e canoscenza».
Ma questo comizio appassionato non verte sul mistero dell’avidità gnoseologica. Dante, primo Italiano, è magnifico, col suo «volgare», nel disprezzo che suona l’allarme politico sulle condizioni dell’Italia ustionata dalla parola «serva», attributo di una condizione simbolica che ulcerava l’Alighieri e, ancora, vuol far pensare noi «Italiani» di tutti tempi, perplessi meditando sulla frustata di quell’endecasillabo iniziale.
Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello! / Quell’anima gentil fu così presta, sol per lo dolce suon de la sua terra, / di fare al cittadin suo quivi festa; e ora in te non stanno sanza guerra / li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode di quei ch’un muro e una fossa serra. / Cerca, misera, intorno da le prode le tue marine, e poi ti guarda in seno, / s’alcuna parte in te di pace gode. Che val perché ti racconciasse il freno / Iustiniano, se la sella è vota? Sanz’esso fora la vergogna meno. / Ahi gente che dovresti esser devota, e lasciar seder Cesare in la sella, / se bene intendi ciò che Dio ti nota, guarda come esta fiera è fatta fella / per non esser corretta da li sproni, poi che ponesti mano a la predella.
Con l’intendimento di noi contemporanei, rimuginiamo il borbottio della lezione politica e sociale di Dante che, trascurando Virgilio e Sordello, astanti, sembra per noi, comiziare amaramente. È vero, sembra rivolgersi a noi, ma perché noi, italiani per lingua e attitudini, si impari la Storia dell’Italia. E l’Alighieri diventa nostro contemporaneo senza attinenze e somiglianze che possiamo, per paradosso, inventare. Il gioco cui facciamo partecipare a forza il Dante redivivo che mi ha spedito questi versi per sfidarmi a riconoscere il suo essere politico, nella visione di oggi, a. D. 2023, maliziosamente ansioso di farsi giudicare con il nostro criterio di settecento e passa anni dopo, non mi attrae.
E Dante sembra metterci in guardia: anche se non me li ha spediti, il canto sesto del Purgatorio esordisce con versi che descrivono un gioco d’azzardo:
Quando si parte il gioco de la zara, / colui che perde si riman dolente, repetendo le volte, e tristo impara; / con l’altro se ne va tutta la gente; qual va dinanzi, e qual di dietro il prende, / e qual dallato li si reca a mente; el non s’arresta, e questo e quello intende; / a cui porge la man, più non fa pressa; e così da la calca si difende.
Ammetto che sembra uno spettacolo caricaturale delle corti politiche o di un «talk-show». Ma di ogni tempo. L’eretico, stoicamente cocciuto, Dante Alighieri era un Guelfo Bianco e sognava l’impero universale con la Chiesa Cristiana al centro, a fianco dell’imperatore. Punto. Me lo ha appena scritto in una mail.