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Un blitz non risolutivo nell'oscura lotta tra lo Stato e la mafia

 
Sergio Lorusso

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Sergio Lorusso

Un blitz non risolutivo nell'oscura lotta tra lo Stato e la mafia

La cattura di un boss, anzi del “boss dei boss”, non può ovviamente che suscitare entusiasmo nell’opinione pubblica e plauso per l’operato di chi ha il compito di garantire l’ordine e la sicurezza

Martedì 17 Gennaio 2023, 13:30

Nel novembre scorso Salvatore Baiardo, per anni uomo di fiducia di noti capimafia, preconizzò con il suo eloquio morbido e beffardo la “resa” di Matteo Messina Denaro – il latitante dei latitanti di Cosa nostra – davanti ai microfoni ed alle telecamere di Massimo Giletti. Oggi ci troviamo a commentare la cattura del boss “invisibile” da ormai trent’anni, avvenuta a Palermo, nella “sua” Sicilia, all’ingresso di una clinica privata all’avanguardia nella cura dei pazienti oncologici. «Vecchio e malandato», come riferiscono alcuni testimoni, Messina Denaro ha tentato inutilmente la fuga ma – una volta bloccato dalle forze dell’ordine – ha declinato senza esitazioni le sue generalità («sono Matteo Messina Denaro») spogliandosi di colpo della falsa identità di cui si era ammantato: il sig. Bonafede, un cognome “ministeriale” che sembra quasi un’ulteriore e derisorio guanto di sfida allo Stato.

La cattura di un boss, anzi del “boss dei boss”, non può ovviamente che suscitare entusiasmo nell’opinione pubblica e plauso per l’operato di chi ha il compito di garantire l’ordine e la sicurezza. È opportuno, però, astenersi da trionfalismi non richiesti e, soprattutto, non troppo realistici se guardiamo al radicamento del potere mafioso sul territorio (non solo siciliano) e ai punti oscuri che fatalmente la lotta alla mafia reca con sé unitamente alle relazioni pericolose dell’organizzazione criminale con i pubblici poteri. Mai dimostrate giudizialmente, è vero, ma che incombono sinistramente sulla storia del nostro Paese da decenni.

Ed ecco allora che un uomo come il generale Mario Mori, a capo dei ROS nell’ultimo scorcio del secolo scorso e poi direttore del SISDE, può affermare che trent’anni per catturare Messina Denaro sono ingiustificati e costituiscono «la dimostrazione che il sistema di polizia italiano è falloso». Parole assai pesanti, tanto più se pronunciate in quello che dovrebbe essere un momento di “festa”. Non è stato molto diverso, del resto, per Totò Riina (ventiquattro anni di latitanza) e Bernardo Provenzano (record di latitanza, quarantasei anni), gli altri pezzi da novanta del sodalizio criminale che hanno fruito di una lunghissima “clandestinità” prima di essere assicurati alla giustizia. E tutti quanti, ricercati a livello internazionale, sono stati “stanati” a due passi da casa, a Palermo e dintorni. Vi era, evidentemente, una rete protettiva che li garantiva a livello locale, il che suscita interrogativi con i quali non si vuole dare adito a improbabili dietrologie ma piuttosto cercare di chiarire dubbi legittimi: l’arresto di Totò Riina avvenne nel traffico convulso di Palermo (15 gennaio 1993), a un chilometro dal suo “quartier generale” e portò con sé molte polemiche perché il suo covo rimase incustodito e venne perquisito solo diciannove giorni dopo: fu ritrovato sgombrato e ripulito dal neo procuratore della Repubblica Gian Carlo Caselli. Trascuratezza? Volontà deliberata di far sparire tracce scomode (come, in altro contesto, con l’agenda rossa di Paolo Borsellino)? Ne seguì un processo (conclusosi con l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato) a carico proprio di Mario Mori e del Capitano Ultimo, a capo dell’operazione.

Ad ogni modo con la cattura di Messina Denaro si chiude il cerchio, l’ultimo dei tre “capi dei capi” è stato reso inoffensivo. Oggi tutti esultano, soprattutto a livello politico e istituzionale, anche se nell’ultima campagna elettorale – e nei relativi programmi presentati dalle forze in campo – si è parlato poco o niente di criminalità organizzata.

La mafia ha subito un duro colpo, ma purtroppo non è stata messa nell’angolo.

E questo perché Cosa nostra è – e continua ad essere – un fenomeno che ha una base culturale. Non è un caso che una delle prime vittime illustri del sodalizio criminale, Rocco Chinnici, capo dell’ufficio istruzione a Palermo, fin dal 1981 invocava «un’ampia opera di sensibilizzazione» delle giovani generazioni affinché potessero ribellarsi contro «il potere della mafia».

E lo storico Salvatore Lupo, uno dei più attenti studiosi di Cosa nostra, sottolinea il carattere embedded della fenomenologia mafiosa, «cioè profondamente “radicata”, “conficcata” nella società, collocata in una sua dimensione profonda», che si intreccia con sfere del potere maggiormente visibili e formalizzate (politica, economia, istituzioni) (Che cos’è la mafia, Donzelli, 2007).

E allora, un blitz eclatante certamente aiuta – anche come messaggio – ma non potrà mai essere risolutivo.

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