La riflessione

L’inflazione e gli errori che le banche centrali non devono commettere

Salvatore Rossi

Alcuni decimali di discesa non sono ancora avvertibili da chi va al supermercato e deve fronteggiare la prospettiva che la spesa costi sensibilmente di più rispetto a un anno fa

L’inflazione in Europa è scesa di sei decimali, secondo i dati provvisori di novembre diffusi qualche giorno fa. È stata la prima diminuzione dopo un anno e mezzo di aumenti ininterrotti. In Italia l’inflazione non si è mossa, ma potrebbe farlo prossimamente. La notizia è passata quasi inosservata, non ha suscitato grandi discussioni o analisi. In effetti l’aumento annuo dei prezzi al consumo resta comunque molto alto, in Italia ancora vicino al 12 per cento, nell’area dell’euro del 10 per cento. Quel 10 è peraltro la media di tassi d’inflazione molto diversi nei vari Paesi dell’area, da poco più del 6 e mezzo per cento in Spagna a poco meno del 22 in Lettonia.

Insomma, alcuni decimali di discesa non sono ancora avvertibili da chi va al supermercato e deve fronteggiare la prospettiva che la spesa costi comunque sensibilmente di più che un anno prima. Costei o costui già si deve abituare all’idea che una mela o una camicia o una visita medica siano improvvisamente rincarate del 10 o 15 per cento dopo un quarto di secolo di prezzi quasi fermi: un tempo lunghissimo, in cui un’intera generazione passa dalla culla all’età adulta. Figuriamoci se può apprezzare una variazione così piccola come quella dello scorso novembre.

Ma sui media internazionali specializzati e fra addetti ai lavori si è acceso un vivace dibattito intorno a una domanda cruciale: basterà questo segnale, per quanto ancora limitato, a indurre nella Banca Centrale Europea un’attenuazione della sua politica di restrizione? Domanda interessante per chi scruta professionalmente il presente alla ricerca di indizi sul futuro.
Come ho già accennato in precedenti interventi su questo giornale, una banca centrale ha per missione quella di mantenere più o meno stabili i prezzi al consumo, consentendone tutt’al più un aumento annuo lieve. Ha gli strumenti per farlo, ma sono strumenti la cui intensità d’azione è difficile da calibrare. Principalmente attraverso i tassi d’interesse a breve termine (ad esempio quelli ai quali le banche commerciali si fanno quotidianamente prestiti tra loro) viene regolata la quantità complessiva di liquidità, cioè di mezzi di pagamento, nell’economia. Ma la liquidità è come il sangue nel nostro organismo: se scarseggia, la pressione arteriosa si abbassa molto, l’organismo diviene anemico e deperisce. L’inflazione invece è come l’alta pressione, anch’essa alla lunga molto pericolosa. Somministrare una cura per l’alta pressione che finisca coll’indebolire troppo l’intero organismo può essere un rimedio peggiore del male.

Aggiungo che l’obiettivo di prezzi stabili di una banca centrale è di medio termine, diciamo uno o due anni, quindi l’uso dei suoi strumenti non può essere tarato sulla base dei dati mensili d’inflazione. Che però sono quelli sotto gli occhi di tutti. È difficile per un governatore di banca centrale ribattere a un giornalista insistente che gli chieda conto della sua reazione all’ultimo dato: non me ne curo, io guardo all’inflazione fra due anni! Rischierebbe il linciaggio, metaforico se non reale.
Questo è il dilemma delle banche centrali e, in questo momento, della Banca Centrale Europea. Con l’aggravante che la medicina dispensata da quest’ultima deve andare bene alla Spagna col suo 6 per cento e alla Lettonia col suo 22. Qui viene a proposito distinguere fra prezzo e prezzo. Finora abbiamo parlato genericamente d’inflazione, come se tutti i prezzi, di tutti i beni e servizi, si muovessero all’unisono. Questa è infatti la definizione classica d’inflazione, un aumento generalizzato di tutti i prezzi. Nella fase storica che attraversiamo da due anni non è propriamente così.

Parliamo dell’Italia in particolare. Il balzo negli scorsi due anni dell’inflazione misurata con l’indice generale dei prezzi al consumo - da zero al citato quasi 12 per cento - è stato causato dal fortissimo rincaro delle fonti energetiche, in primis il gas naturale, e di molte materie prime, nonché da quello, meno eclatante ma comunque rilevante, dei prodotti agricoli e alimentari. Non ne discutiamo qui le cause prime, però è importante rammentare che le fonti di energia e in parte le materie prime hanno una particolarità: vengono usate nella produzione di qualunque bene o servizio. Non che un’impresa scarichi automaticamente tutti i rincari di costo sui prezzi delle cose che vende, perché i concorrenti potrebbero sottrarle dei clienti se scelgono di comprimere i propri profitti per aumentare la quota di mercato, ma lentamente si mette comunque in moto un meccanismo di propagazione degli aumenti di prezzo a tutta l’economia.

È esattamente ciò che sta succedendo ora: i prezzi del gas e del grano hanno smesso di salire, sono anche ribassati un po’, ma nel frattempo ha preso ad aumentare la cosiddetta inflazione core, cioè quella al netto delle fonti di energia e dei prodotti alimentari, giunta a superare il 5 per cento. Fin qui è stato puramente l’effetto del lento processo di incorporazione nei prezzi di vendita al consumo dei maggiori costi di produzione. Il rischio, temuto dalle banche centrali, è che i consumatori stessi comincino a considerare la fiammata inflazionistica non come un fenomeno passeggero; che i lavoratori dipendenti chiedano aumenti di stipendio o addirittura meccanismi di indicizzazione delle loro retribuzioni ai prezzi al consumo.
Richieste sacrosante per chiunque le avanzi, ma tali, se di massa, da far diventare esse stesse l’inflazione un fenomeno endemico, perché le imprese cercheranno di scaricare il maggior costo del lavoro sul prezzo di ciò che vendono, in una spirale senza fine.

Trovare il giusto equilibrio fra la necessità di tenere l’inflazione a bada e quella di non soffocare l’economia è, per una banca centrale, un esercizio arduo. La storia c’insegna che errori o per difetto o per eccesso di restrizione sono stati frequenti e pagati cari dalle comunità interessate. Speriamo che la Banca Centrale Europea sappia trovare la saggezza di non farne questa volta.

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